Tina Anselmi partigiana della democrazia

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L’appuntamento di questo mese della nostra rubrica “Dalla parte di Lei” è ancora dedicato a Tina Anselmi, come anticipato l’ultimo lunedì di giugno raccontando Tina da Presidente della commissione d’inchiesta sulla loggia segreta massonica P2. Adriana Chemello ne traccia un profilo poliedrico.

Tina Anselmi è la partigiana “Gabriella” e la protagonista appassionata della nascita e della vita della nostra Repubblica: fu anche parlamentare dal 1968 al 1992 con vari incarichi. In un decennio straordinario ma terribile, gli anni ’70, fu la prima ministra della Repubblica Italiana: Ministra del lavoro e della Previdenza sociale: 29 luglio 1976 – 11 marzo 1978; Ministra della Sanità: 13 marzo 1978 – 21 marzo 1979.  In soli tre anni ha lasciato un segno indelebile anche come ministra. Basta citare tre leggi che portano la sua firma (tra le altre proposte ed approvate in quegli anni).

Eccone i titoli:

La legge 9 dicembre 1977 n. 903: Parità di trattamento di uomini e donne in materia di lavoro

La legge 22 maggio 1978 n. 194: Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza

La legge 23 dicembre 1978 n.833: Introduzione del servizio sanitario nazionale, in attuazione dell’art.32 della Costituzione.

Sono ancora oggi inapplicate nella loro interezza; anzi sono attaccate pesantemente proprio mentre Presidente del Consiglio è una donna per la prima volta: possiamo definirla “un’esperienza al contrario”!

MGG

 

Tina Anselmi partigiana della democrazia

Adriana Chemello

Tina Anselmi nasce il 25 marzo del 1927 a Castelfranco Veneto (TV), da Norma Ongarato e Ferruccio, una famiglia di origini contadine e di fede cattolica, dove il padre, per le sue idee socialiste, è spesso preso di mira dai fascisti locali. Tina respira in famiglia un’avversione, seppur tacita, verso il nazifascismo. Figura chiave è per lei la nonna materna Maria Bendo, una donna forte con alle spalle una vita difficile. Adolescente, si interroga assieme alla sorella Isa sull’improvviso allontanamento dalla scuola di due loro coetanee, dai nomi esotici ed affascinanti, Esther e Ruth, escluse dalle aule scolastiche in seguito alle leggi razziali del 1938. Meravigliate dalla risposta della domestica che spiega l’assenza dalla scuola “perché sono ebree”, Tina e Isa ingenuamente commentano: “non sarà mica una malattia infettiva essere ebree”.

Per un breve periodo emigra con la madre e una zia in Piemonte. Al suo rientro in Veneto frequenta il ginnasio a Castelfranco e poi a Bassano del Grappa l’Istituto magistrale. Negli stessi anni si avvicina alla Gioventù femminile dell’Azione cattolica che risulta essere un incontro determinante per la sua formazione.

Tina è una studentessa diciassettenne dell’Istituto magistrale quando il 26 settembre 1944 viene costretta con i suoi compagni di classe ad assistere, dopo un furioso rastrellamento tedesco nella zona, all’impiccagione di 31 giovani antifascisti lungo un viale alberato di Bassano.

Una scena terribile, che suscita in lei una risposta immediata: non si può restare spettatori della violenza dei nazifascisti senza tradire i valori della libertà e della pace. Di fronte alla morte di quei giovani, Tina non si lascia intimidire, non sceglie di rifugiarsi nella paura, ma sceglie i monti e la bicicletta della staffetta. Non a caso il suo racconto autobiografico prende le mosse proprio dall’esperienza di staffetta partigiana, che si rivelerà una preziosa fonte di insegnamenti, una vera e propria scuola di vita: quella e il successivo impegno a sostegno delle operaie delle filande in Veneto, la porteranno a maturare l’interesse per l’attività politica, in particolare per le questioni femminili e sociali.

Il cattolicesimo popolare della madre e della nonna e l’antifascismo militante del padre e l’umanità di alcuni sacerdoti con i quali era entrata in contatto, perché avevano costruito una rete di aiuto ai partigiani, costituiscono la spinta ad avvicinarsi e ad entrare nella Resistenza.

Viene introdotta da Marcella Dallan, socia della Gioventù Femminile, nel battaglione “Bruno Lorenzoni” e prende il nome di battaglia Gabriella, ispirandosi all’Arcangelo Gabriele che, secondo la tradizione cristiana, è il protettore dei messaggeri e quindi in senso lato anche delle “staffette” partigiane che portano messaggi di pace. In quegli anni conosce Domenico Sartor che sarà poi eletto nella Costituente e viene in contatto con diversi intellettuali anche francesi.

In un libretto dal titolo La Gabriella in bicicletta. La mia Resistenza raccontata ai ragazzi (con Introduzione di Laura Boldrini, S. Cesario di Lecce, Manni, 2019), Tina racconta ad una immaginaria nipote la sua esperienza partigiana, e sottolinea tra l’altro che: “le donne nella guerra partigiana sono state fondamentali. Io dico che la qualità della politica sarebbe migliore se ci fossero più donne accanto agli uomini a gestire i problemi del Paese”. Alla domanda se c’erano molte donne nella Resistenza, Tina risponde: “Abbiamo affermato questo valore della pace che si coglie leggendo le lettere dei condannati a morte, non c’è l’odio, non c’è una volontà di vendetta, di rivalsa. Quando noi abbiamo combattuto con le forze partigiane abbiamo combattuto per conquistare la pace”. E aggiunge: “Dobbiamo non perdere la memoria di quello che è avvenuto, di quello che abbiamo pagato perché la storia si ripete, non c’è niente e nessuno che ci possa salvare quel giorno in cui noi questa storia la tradissimo proprio nella memoria”.

Sono questi gli anni in cui viene in contatto con la condizione operaia, in particolare la condizione delle donne operaie e comincia a prendere forma il suo impegno sindacale. Conosce, tra gli altri, Monsignor Luigi Piovesana, teorico della dottrina sociale della Chiesa.

Dopo la Liberazione, decide di frequentare l’Università e si iscrive alla facoltà di lettere dell’Università cattolica del Sacro Cuore a Milano, l’Università fortemente voluta da padre Gemelli.

Con l’acquisizione del diritto di voto e l’accesso al voto delle donne in occasione del referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente del 2 giugno 1946, si intravede per la prima volta una coralità femminile sulla scena pubblica con le figure delle “madri” costituenti che prefigurano una cittadinanza politica attiva anche per le donne.

Tina partecipa attivamente al referendum Monarchia/Repubblica e alle elezioni per la Costituente, schierandosi con la Democrazia Cristiana. Cerca di convincere le donne venete ad andare a votare, anche se lei, per ragioni anagrafiche, non avrà la soddisfazione di esercitare questo diritto.

Già dal dicembre 1944 si iscrive alla DC ed esercita la sua cittadinanza attiva, impegnandosi soprattutto sulla questione femminile, a cui affianca una particolare attenzione ai problemi del lavoro, soprattutto per le donne. Si impegna nell’attività sindacale per la CGIL unitaria prima e, dal 1950, per la CISL. I suoi ambiti d’azione sono soprattutto il tessile e l’istruzione, in un territorio, quello veneto, ancora profondamente contadino e con ampie sacche di disoccupazione.

Continua il suo impegno sindacale fino al 1955, quando abbandona sia l’insegnamento che il lavoro nel sindacato per dedicarsi a tempo pieno alla politica. Nel 1958 viene eletta delegata nazionale delle giovani donne della DC e, in tale veste, partecipa al dibattito nazionale sulla legge Merlin, spostandosi sempre più spesso dal suo Veneto verso Roma.

Raccontando ad Anna Vinci la sua scelta di scendere in campo e di mettersi nel mondo, Tina Anselmi narra la “storia di una passione politica” che i suoi primi biografi tendono a scandire in tre date significative: 1927 anno di nascita; 1976 viene nominata la prima donna Ministro della Repubblica; 1981 la nomina a Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2. Sulla scena pubblica la figura di Tina Anselmi ha due punti di forza irrinunciabili: un impegno civile maturato e cresciuto nei durissimi mesi della lotta per la liberazione e per la difesa dei valori democratici di libertà e giustizia; e l’infaticabile lavoro politico del primo Ministro-donna a favore delle donne, che diventa quasi la sua missione etica.

La sua è una figura politica di primo piano nella storia dell’Italia tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta.

Passata agli Annali della storia come la prima donna italiana chiamata a fare il Ministro, dopo 836 ministri uomini che si erano avvicendati in trentasei governi della Repubblica, le viene affidato il Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale nel terzo governo Andreotti. Presta giuramento il 30 luglio 1976, davanti al Presidente della Repubblica Giovanni Leone, e da quel momento scrive pagine importantissime soprattutto per la storia delle donne e per il miglioramento delle loro condizioni di vita. Possiamo dire che la sua azione politica, nutrita di impegno civile e di passione etica, attenta soprattutto ai problemi sociali e alle donne, condotta con una profonda fedeltà a sé e al suo essere donna, ha lasciato a tutte noi una grande eredità da far fruttare.

Viene eletta alla Camera dei Deputati per la prima volta il 19 maggio 1968, ci rimarrà per ben sei legislature fino al 1992, quando si ritira definitivamente dalla vita parlamentare.

In Parlamento si impegna fin da subito nelle commissioni Lavoro e previdenza sociale, Igiene e sanità, Affari sociali. Dal 1974 al 1976 è nominata sottosegretaria al Lavoro in tre successivi governi. Il decennio 1970-1980 è quello in cui raggiunge l’apice del suo impegno parlamentare e di governo e in cui deve affrontare i nodi cruciali della questione femminile, a partire dal referendum sul divorzio del maggio 1974, quando si trova a vivere una profonda lacerazione tra l’appartenenza ad un partito d’ispirazione cattolica, contrario al divorzio, e il suo essere donna.

Ma è il 1975 l’anno che la proietta su uno scenario internazionale, quando guida la delegazione italiana alla World Conference on Women, promossa dall’ONU a Città del Messico dal 19 giugno al 2 luglio, nell’anno che la stessa ONU aveva proclamato International Women’s Year.

Ma prima di partire per Città del Messico, nell’ambito delle manifestazioni promosse dal Comitato Italiano per l’Anno della Donna, di cui era Presidente, Anselmi tiene una conferenza a Roma il 27 febbraio 1975, presso il Centro italiano di studi per la conciliazione internazionale, in cui illustra la motivazione dell’ONU ancorandosi al problema della condizione femminile in Italia. Per Anselmi, il riconoscimento del diritto di voto alle donne ha rappresentato la pietra miliare per il “ritorno dell’Italia alla democrazia”; sottolinea inoltre che condizione femminile e questione del lavoro sono tra loro strettamente interconnesse, come si evidenzia dalla “scarsità di dirigenza femminile in settori che interessano particolarmente la donna”, nella fattispecie la scuola e il settore tessile. Nel suo discorso riecheggia la sua lunga attività di sindacalista tra le donne venete, quando denuncia la “poco numerosa presenza della donna ai livelli decisionali”, o quando rimarca un profondo sbilanciamento nelle rappresentanze: “Come controparte, anche stasera, quando andrò via di qua, ho quasi sempre uomini, anche quando si tratta di gestire realtà di lavoro largamente femminili”. Ma nel contempo Anselmi sottolinea con un certo orgoglio i meriti della legislazione italiana impegnata per eliminare la discriminazione tra uomo e donna. E allora riaffiorano i sigilli autobiografici del suo impegno dirigenziale nella DC: la legge Merlin, la lotta all’analfabetismo femminile, al lavoro a domicilio, fino al diritto di famiglia, allora in discussione in Parlamento. Un discorso che sintetizza con lucidità il programma della futura Ministra del Lavoro, consapevole che la questione femminile non può essere ridotta a “questione di donna”, bensì deve coinvolgere “la responsabilità di tutta la società”.

È su queste premesse che il 21 gennaio 1977, il Ministro del Lavoro Tina Anselmi presenta la legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (legge 903/1977), facendo riferimento a due direttive della Comunità Economica Europea, rispettivamente del 10 febbraio 1975 e del 9 febbraio 1976. Una legge che ha tre capisaldi: la centralità della questione femminile, le due direttive della CEE sopra menzionate e il richiamo alla Carta costituzionale che sancisce il “principio di perfetta eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di sesso”, meglio esplicitato negli articoli 4 (“diritto al lavoro”) e nel 37 (“la donna lavoratrice”). Presentando alla Camera il suo progetto di legge, Anselmi fa uno spaccato realistico del mondo del lavoro femminile che conosce bene per averne condiviso a lungo speranze e disillusioni, e infatti la legge non si occupa solo di lavoro, bensì prefigura tutti quei servizi sociali “atti a migliorare la qualità della vita” e a “consentire una reale conciliazione tra compiti familiari e quelli di lavoro”, vale a dire il riconoscimento del lavoro di cura svolto dalla donna.

In tutte le leggi a cui lega il suo nome, Anselmi porta il bagaglio della propria esperienza personale, associato alla convinzione che “la democrazia non è un sistema politico in cui ci si adagia: dobbiamo sceglierla ogni giorno”. Pensiamo alla legge 194/1978 sul “valore sociale della maternità e l’interruzione volontaria di gravidanza”, che reca la sua firma come Ministro della Sanità, mostrando un alto senso delle istituzioni e un profondo rispetto per la laicità dello Stato. Altra legge inscindibilmente legata a lei è la 833/1978 che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale e, nello stesso anno, la famosa legge Basaglia (la 180/1978) sulla apertura degli ospedali psichiatrici. Ma non dimentichiamo che fu lei a proporre l’introduzione della “clausola di genere” nella legge elettorale del 1993 che segnò un aumento della presenza femminile negli scranni del Parlamento.

Ricordandola alla Camera a pochi giorni dalla scomparsa (era mancata il 1° novembre 2016), Pia Elda Locatelli la ricorda come “esempio concreto di come le donne in politica possano fare la differenza”.

Le donne elette in Parlamento in quel decennio “rivoluzionario”, che segnò una svolta epocale per la storia della nostra Repubblica, pur non molto numerose, hanno saputo fare la differenza, stabilendo una relazione virtuosa tra le donne nelle istituzioni, superando le rigidità e gli steccati dei partiti allora tenacemente diretti da uomini. Ma le parlamentari di quegli anni, e in particolare Tina Anselmi, pur con le asprezze e le conflittualità che a tratti ne caratterizzarono i rapporti, hanno saputo ascoltare e accogliere le sollecitazioni provenienti dai movimenti femminili e femministi che, per la prima volta nella storia riempivano le piazze d’Italia, dando un contribuito, anch’esso determinante, alla conquista di questa legislazione.

E concludiamo con un altro pensiero di Tina Anselmi che oltre ad essere condivisibile è un invito forte, un’apertura verso il futuro e la speranza:  “La nostra storia ci dovrebbe insegnare che la democrazia è un bene delicato, fragile, deperibile, una pianta che attecchisce solo in certi terreni, precedentemente concimati, attraverso la responsabilità di tutto un popolo. Dovremmo riflettere sul fatto che la democrazia non è solo libere elezioni, non è solo progresso economico. È giustizia, è rispetto della dignità umana, dei diritti delle donne. È tranquillità per i vecchi e speranza per i figli. È pace”.

Nella titolazione di questo contributo abbiamo intenzionalmente ripreso il titolo del convegno organizzato dalla Fondazione ‘Nilde Iotti’, il 26 ottobre 2017, ad un anno dalla sua scomparsa: Tina Anselmi Partigiana della democrazia, che sintetizza con efficacia l’immagine pubblica di questa “madre della Repubblica”.


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