La secessione di Calderoli è anche mediatica

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Il percorso parlamentare del disegno di legge con la firma del ministro Calderoli procede e chissà che non riesca a raggiungere il traguardo.
Gli ostacoli, fortunatamente, non mancano: a cominciare dal vasto movimento che si è organizzato contro un testo volto a dividere l’Italia tra aree di maggior benessere e situazioni -a partire dal Sud- condannate a disagi e povertà. E, poi, non è certo che a Fratelli d’Italia, dopo il vicino voto europeo, possa continuare ad interessare l’abbandono del Mezzogiorno.

Ovviamente, gli argomenti della devoluzione di più forte eco pubblica sono la scuola e la sanità. In particolare, è proprio attorno a simili vitali questioni che è ben difficile dipanare il gomitolo dei cosiddetti LEP (livelli essenziali di prestazione), cui si riferisce il Titolo V della Costituzione nella sostanza della (inopportuna) revisione del 2001. Tuttavia, è bene non perdere di vista il capitolo cruciale dell’ordinamento della comunicazione, oggi massimamente importante nello scenario dei poteri e nella trama del capitalismo delle piattaforme.

Quando, ormai ventitré anni fa, fu concepita quella (contro)riforma immaginata per sussumere la Lega (di Bossi, all’epoca) nell’arcipelago del centro-sinistra lo scenario era assai diverso. I confini del mappamondo mediatico erano sostanzialmente disegnati dall’editoria, dalla radio e dalla televisione analogiche, dall’ascesa delle telecomunicazioni nella puntata precedente al regno degli oligarchi della rete.
Ma in quel passaggio il caso fu affrontato frettolosamente, tant’è vero che in una prima stesura la potestà sui settori evocati diveniva attribuzione esclusiva delle autonomie locali. Vi fu un compromesso, che mise il comparto nella sovranità concorrente tra autorità centrale e decentrate.

E adesso? Se entrasse in vigore il pasticcio di Calderoli, faremmo un brusco salto all’indietro. Il rischio non sarebbe solo l’appalesarsi di reti a pois, come del resto in parte è avvenuto con affidamenti ad imprese territoriali dell’implementazione delle trasmissioni digitali o della banda larga e ultralarga. Il quadro diverrebbe davvero assurdo, oltre che inedito.
Le reti potrebbero non dialogare e il sistema attuale delle licenze nonché delle autorizzazioni generali potrebbe saltare. Il digital devide subirebbe un’impennata, essendo schiacciante la differente densità tecnologica tra Nord e Sud, e nelle stesse zone settentrionali. Per non dire delle isole, soprattutto le meno grandi.

I segnali radiotelevisivi andrebbero magari in certe situazioni limitrofe in tilt, per le non improbabili sovrapposizioni e per gli inevitabili sconfinamenti delle connessioni.
Se si inquadra il tutto nello scenario contraddistinto dall’era di algoritmi e intelligenza artificiale, oppure della insidiosa parabola dell’ex monopolista Tim, si comprende quale pericolo si nasconda sotto l’abito furbo e insidioso della strumentale azione leghista. Si tratterebbe, per riassumere, dello spezzatino dell’Italia a fronte dell’invasione degli Over The Top e della conquista da parte del fondo statunitense KKR di Tim. Avremmo un paese privo di industrie e soggettività autonome e mercé di avventure di un agguerrito imperialismo della comunicazione.

Se non si riprende una linea attiva dello Stato, in grado di aprire la strada con modalità aperte (e coinvolgenti) alla sperimentazione creativa (open source), saremo un anello debolissimo del e nel villaggio globale. Quindi, è bene unire ai punti della lotta l’universo dell’infosfera. Tra l’altro, un effetto certo della pessima normativa in fieri è la divisione tra chi sarà in grado di costruire torri e impianti di collegamento e chi no. Tra chi amplierà, ad esempio, le risorse del Fondo per l’editoria e chi vedrà deperire le proprie testate.
Le emittenti locali, ridimensionate per la cessione di una cospicua quota di frequenze alla telefonia, avranno un’ altra ferita.
C’è motivo per fare rumore, risvegliando troppe coscienze sopite.

PS: l’amministratore delegato della Rai Sergio ha evocato, sul monologo censurato di Scurati, la par condicio. Sergio, legga quel testo.
(Da Il Manifesto)


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