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Il museo universale alle scuderie – dal sogno di Napoleone a Canova

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Il Museo Universale era stata un’intuizione di Napoleone, una delle sue idee geniali, avveniristiche: riunire l’eccellenza dell’arte al Palazzo del Louvre e promuoverlo a Museo d’Europa, meta culturale di tutto il continente. All’esposizione di capolavori immortali avrebbe provveduto la Campagna d’Italia, in cui il condottiero, travolgendo di vittoria in vittoria le armate austriache e piemontesi («Di quel securo il fulmine/Tenea dietro al baleno») avrebbe ottenuto in appena un paio d’anni l’investitura a Re, ponendosi in capo la Corona Ferrea di Carlo Magno nel Duomo di Milano.

In prospettiva  aveva mobilitato al suo seguito fior di studiosi transalpini per eseguire un rapido censimento delle opere dei grandi artisti del Rinascimento e, a conquista avvenuta, procedere alla loro requisizione regolata giuridicamente dalle Conditions d’un armestice sancite nel vessatorio Trattato di Tolentino (1797). Spodestato il Papa e sciolti gli ordini religiosi, gli esperti avevano fatto incetta a Roma di ogni possibile capolavoro, spogliando chiese, conventi e residenze dello Stato Pontificio, ma anche di Firenze, Bologna, Parma, Milano, Verona, Venezia.

Il Cinquecento era una miniera di pittori di incontrastato talento, ma Raffaello!, ah se avesse potuto trasferirne l’intera produzione a Parigi! Era lui l’astro raggiante di un firmamento di semidei. E così partirono per la Francia pale d’altare, tele di ogni dimensione, statue di incomparabile valore. Carri e carri avanzavano in processione alla volta del Louvre, pronto ad assurgere da Musée National, com’era stato chiamato alla sua apertura nel 1793, a Musée Napoléon.

Ma poi la fortuna era girata, l’imbattibile imperatore, il genio della guerra, aveva conosciuto prima la disfatta in Russia, e quindi la fatale rovina di Waterloo: «Due volte nella polvere, Due volte sull’altar». Così poetava Alessandro Manzoni per il personaggio che aveva sconvolto secolari e immutabili assetti politici: «…due secoli,/ L’un contro l’altro armato,/ Sommessi a lui si volsero,/ Come aspettando il fato;/ Ei fe’ silenzio, ed arbitro/ S’assise in mezzo a lor.»

Napoleone scomparve dalla scena, ma non perirono con lui le sue idee rivoluzionarie, né la nuova consapevolezza della libertà assimilata dai popoli; non la promulgazione dei codici napoleonici alla base degli ordinamenti attuali, non la moderna visione dell’esistenza che dal continente europeo si sarebbe propagata a tutto il mondo. Con gran sgomento delle vecchie dinastie, che infatti al Congresso di Vienna del 1815 ricondussero gli stati all’ordine precedente. E così tolto di mezzo il genio guastatore, le nazioni depredate si sentirono autorizzate a rivendicare i propri tesori; una pretesa accordata sulla carta all’ 80%,  che mai corrispose al numero effettivo delle restituzioni, ammontanti forse alla metà. In ogni caso nel 1816, orsono duecento anni giusti, carovane di carri trainati da centinaia di cavalli riattraversarono il Moncenisio per riportare a casa i tesori trafugati. Antonio Canova, il più celebre scultore del tempo ammirato presso tutte le corti europee, era partito in missione per conto del Papa Pio VII  e aveva raggiunto Parigi per trattare di persona le riconsegne. Le opere d’arte tornarono a casa, accolte trionfalmente lungo le strade da una folla plaudente che in quel riscatto ritrovava una propria calpestata dignità. E anche una nuova identità. Nasceva in quel frangente una coscienza collettiva del bene culturale fino ad allora ignorata; e per contagio il sogno di Napoleone si propagò inarrestabile; in numerose città italiane sorsero gallerie pubbliche presso le Accademie di Belle Arti, a Brera, a Venezia, a Bologna, a Ravenna. “L’imperialismo francese, – scrive Parisi Presicce – che aveva trasformato le collezioni pontificie in bottino di guerra e determinato il saccheggio delle opere d’arte e la prigionia del papa, accelerò la fioritura di sentimenti patriottici anche tra coloro che osteggiavano l’unificazione”.

Ora la raffigurazione plastica di ciò che accadde duecento anni fa, viene proposta da una mostra “monstre” appena aperta alle Scuderie del Quirinale per volontà di Mario De Simoni, divenuto dopo tanti incarichi strategici presidente di Ales, la società in-house del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali a cui la Presidenza della Repubblica ha affidato stabilmente la gestione della sua prestigiosa Galleria. Un nuovo corso si inaugura dopo un periodo nebbioso, con il proposito per nulla celato di riuscire a trasformare la struttura del Quirinale in una sorta di Gran Palais alla francese.

La rassegna, bisogna dire, lascia incantati e con il fiato sospeso già dal primo impatto, a tu per tu con il calco del Laocoonte, lo stupefacente gruppo marmoreo ellenico, che introduce all’esposizione  di dipinti e sculture leggendari, raccolti tutti insieme in un allestimento di raro equilibrio tra fasto e sobrietà. Al piano nobile si respira lo spirito della declamazione in grande stile; mentre il secondo piano, nella sezione dedicata ai Primitivi, come venivano chiamati i pittori antecedenti Raffaello,  privilegia un allestimento più composto e riflessivo, su sfondo bordeaux, e i dardi di luce che accendono d’ardore i singoli dipinti senza mai dissolvere l’intensa, avvolgente penombra.

Chi ama la pittura del Cinquecento proverà l’impressione emozionante di trovarsi di fronte a una inaspettata sinopia, nel vero significato etimologico, un unico sguardo d’insieme capace di restituire non solo la specificità creativa, l’essenza stessa di ogni scuola pittorica di quel secolo prodigioso, ma anche l’originalissima connotazione di ogni regione, percepibile nel confronto diretto: la grandiosità scenografica nei veneziani; la sensuale carnalità emiliana; la raffinata geometria toscana; la trepidante spiritualità umbra; il gusto romano della rappresentazione e della sapiente messa in scena.

54 sono le tele in mostra, quasi tutte di vaste dimensioni. Il “Ritratto di Papa Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi” (riproduzione assente chissà perché nel catalogo), eseguito dal divino Raffaello, occupa a buon merito il posto d’onore; pare infatti umanamente impossibile che la mano di un pittore riesca a ricreare con tanta verità di finzione non soltanto la personalità, il gioco psicologico dei personaggi (impossibile non domandarsi perché il Medici guarda il Papa e questi tiene gli occhi fissi davanti a sé, mentre l’altro porporato si rivolge dritto al pittore) ma fino al più impercettibile dettaglio, all’ultimo riflesso della cappa di velluto, all’ultimo ricamo della veste, ai ceselli della campanella appoggiata sul tavolo o alle miniature del volume che il pontefice tiene aperto davanti a sé.

Il visitatore passa di meraviglia in meraviglia: straziante è il dolore nel “Compianto sul Cristo morto” di Correggio; sublime il “Plutone” di Agostino Carracci, ripiegato su se stesso, nudo e torvo, con la corona nera in testa e accanto il minaccioso Cerbero dalle tre teste. Mirabile e potente “La cattedra di San Pietro” del Guercino, in cui Gesù in persona invita l’apostolo inginocchiato a prendere il proprio posto sul trono pontificale, a indossare la Tiara. Magnifica la “Madonna in trono” del Domenichino con alla base i due putti che scherzano a provarsi sulla testa la Mitra papale. E ancora  la convulsa teatralità nel “San Barnaba che guarisce gli infermi” del Veronese, la luce arabescata del Tintoretto in “Sant’Agnese che resuscita il figlio del prefetto”.

Al piano superiore sfilano i trecenteschi e i quattrocenteschi: la “Imago pietatis” del Perugino sostanziata di luce mistica, e poi il Cima, il Vivarini, il Crivelli, Taddeo di Bartolo, artisti di somma maestria che animano i miracoli della fede facendoli quasi affiorare dagli sfondi di oro zecchino.

Tra le statue giganteggiano il calco stupefacente dell’Apollo del Belvedere (modello ideale di bellezza fissato dal Winckelmann),  o “Marte e Venere” in posa da amanti, del Canova, e la sua impudica “Venere Italica”; o i marmi antichi della scandalosa “Venere Capitolina” e della “Testa di Giove” di Otricoli, poderosa scultura in marmo pario del I secolo.

Una nota a parte merita il Guidarello di Tullio Lombardo (1525) disteso sul suo sarcofago: un magnete irresistibile. Il giovane caduto eroicamente in battaglia a soli ventitré anni – che spreco! – mostra il suo volto angelico nel sembiante rasserenato dalla morte; e da lui ancora oggi si recano in pianto a Ravenna le fanciulle malate d’amore. La sua icona si incastona perfettamente nella mostra che è al contempo dotta e popolare, sa parlare agli studiosi e ai turisti in cerca di forti emozioni, e non sembri un ossimoro. L’arte universale – il museo agognato da Napoleone –  non ha bisogno di lasciapassare né di domicilio, se non dentro il nostro cuore. E bene hanno fatto i curatori – Valter Curzi, Carolina Brook e Claudio Parisi Presicce, presenti con limpidi contributi nel Catalogo Skira) a concludere il percorso espositivo ponendo da una parte “La Meditazione (L’Italia del 1948)” di Francesco Hayez, la giovanetta coraggiosa che, simboleggiando la nazione oltraggiata, scopre sfrontatamente un tenero seno e impugna nelle mani il libro e la croce; e a riportare a commento, in epigrafe, la commossa e toccante riflessione di Giacomo Leopardi del 1818:

«… e quelle opere immortali ch’erano e saranno sempre nostre dovunque la fortuna le sbalzi ritornate alla patria loro albergano qui fra noi beando gli occhi e gli animi nostri e quasi gridando ci esortano ad emulare quei divini artefici nati da una stessa madre con noi che imitando questa natura e contemplando questo cielo e questi campi e questi colli a se medesimi acquistarono e alla patria mantennero nome e gloria più durevoli dei regni e delle nazioni.»

Per chi crede, e siamo in tanti, nella religione dell’arte e che «I frutti del genio sono il patrimonio della libertà».


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