Possono due capimafia essere liberi di gestire i propri affari dal carcere e dare ordini per i sodali del clan, dai colloqui con i parenti?
Parliamo di due capimafia condannati all’ergastolo, per associazione mafiosa, estorsioni, droga e, soprattutto, efferati omicidi.
Parliamo di due capimafia che hanno ridotto i propri territori in schiavitù.
Parliamo di due capimafia che, fino a pochi anni fa, erano ristretti al 41bis, il famigerato e tanto odiato “carcere duro”.
Parliamo di due capimafia che mai e poi mai dovrebbero parlare fra loro: uno di un clan legato a cosa nostra ed uno legato alla ‘ndrangheta, a capo di una ‘ndrina che opera in Lombardia.
Antonino Pinuccio Trigila (chiamato Pinuccio Pinnintula), è condannato all’ergastolo, per essere il promotore, l’organizzatore, del clan che porta il suo cognome e per essersi macchiato di svariati episodi sanguinari. Uno dei fatti più cruenti che lo riguardano, venne raccontato da alcuni pentiti: Trigila, dopo aver ucciso un ragazzo, giocò a calcio con la sua testa, spezzata dal corpo.
Francesco Sergi è il capo indiscusso dell’omonimo clan (la ‘ndrina Sergi) che, da anni, ha piantato le proprie radici anche in provincia di Milano. Sergi sta scontando una condanna definitiva all’ergastolo comminatagli per cinque omicidi e traffico organizzato di stupefacenti.
I due, lo abbiamo raccontato in una inchiesta sul sito La Spia.it, rinchiusi nel carcere di Biella, con due celle vicine potevano conversare, discutere e diventare i promotori di un nuovo traffico organizzato di sostanze stupefacenti, proprio dall’interno.
La droga dai calabresi arrivava in Sicilia. Un traffico, per fornire qualche cifra, da milioni di euro complessivi che ha fruttato ai boss ed alle famiglie guadagni da capogiro. E quei soldi sono soldi che puzzano di sangue, di morte. Nell’inchiesta abbiamo cercato di documentare, “passo passo”, tutte le trame, gli scambi, i colloqui in carcere.
Pochi giorni fa, infatti, la Polizia di Avola (Siracusa), nell’ambito dell’operazione della Procura Distrettuale di Catania, denominata “Ultimo Atto”, ha eseguito il mandato di custodia cautelare per alcuni famailiari del capomafia siciliano, Antonino Pinuccio Trigila. La domanda sulla quale si dovrebbe riflettere seriamente è come sia possibile che due capimafia del calibro di Antonino Trigila e Francesco Sergi, vista l’oggettiva e acclarata non conformità del provvedimento restrittivo odierno che ha portato i due boss a continuare dal carcere i propri affari, possano tranquillamente rimanere fuori dal carcere duro, l’unico strumento che abbiamo per impedire ai capimafia di continuare a comandare all’esterno.
Ci battiamo il petto, con grande vigore e commozione, durante le commemorazioni di Falcone e Borsellino, degli uomini della loro scorta, dei tanti magistrati, sindacalisti, giornalisti, imprenditori, uccisi dalle mafie, ma cosa facciamo per far sì che gli strumenti da loro ideati, e per i quali sono morti – appunto il carcere duro -, siano realmente applicati?
Borsellino diceva che “della mafia bisogna parlarne sempre”.
Cerchiamo di parlarne, cerchiamo di rappresentare realmente il nostro ruolo di “cani da guardia della democrazia”.
Forse dovremmo smetterla di indignarci a “fasi alterne” e denunciare ciò che non va.
In questo modo, probabilmente, potremmo rispettare la memoria di chi ha perso la vita per aver “ideato” il carcere duro ai boss. Iniziamo dal denunciare ciò che non va, dal caso concreto, dai boss Trigila e Sergi liberi di calpestare la vita e la memoria delle tante vite che hanno spezzato durante la loro carriera criminale.