Dal resto del mondo all’Italia un solo motto: stop alla libera informazione

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In Parlamento in questi giorni è in discussione un disegno di legge che di per sé ha un obiettivo senz’altro nobile, proteggere amministratori locali e politici minacciati e intimiditi, ma rischia di essere l’ennesima norma a protezione della casta politica e in più ingenera confusione, coinvolgendo nelle presunte minacce anche i giornalisti.  Si tratta di un’aggravante che rende più pesante la pena detentiva per quanti, a scopo di ritorsione per un’autorizzazione non concessa o per un atto non gradito del pubblico amministratore, lo diffami pubblicamente. Il relatore della legge, il senatore Pd Giuseppe Cucca, precisa: “il privato cittadino a cui è stata negata una concessione o è stato abbattuto un immobile abusivo, si serve del giornale e del giornalista per esercitare una pressione contro chi ha emesso il provvedimento”. Però non precisa che effetti avrà la nuova norma sul cronista che riporterà le dichiarazioni, sia pure indebite, del privato in questione: il suo articolo sarà assimilato a una lettera di minaccia? E l’autore sarà complice delle azioni di intimidazione o di ritorsione? Peraltro, l’attuale legge sulla diffamazione a mezzo stampa, che contiene pene da uno a sei anni di carcere, già prevede un aumento di pena “se l’offesa è arrecata a un corpo politico, amministrativo o giudiziario”, portando a otto anni il massimo della detenzione per i giornalisti. Una misura pesante già condannata nelle sedi internazionali. La nuova legge non può quindi andare a sommare a questo una ulteriore aggravante, e comunque sarebbe auspicabile un chiarimento nella lettera della legge, altrimenti, per assurdo, si potrebbe avere come effetto di silenziare ulteriormente le cronache cittadine che parlano della piaga delle minacce e delle violenze contro gli amministratori onesti, ma denunciano anche quanto troppo spesso non funziona negli uffici pubblici, locali e non. Senza parlare della piaga delle querele temerarie, che molti, troppi politici, amministratori locali e dirigenti di aziende pubbliche brandiscono come armi non di ritorsione ma di preventiva intimidazione. Una piaga verso cui il legislatore appare sempre più distratto.

Questa poca attenzione per il diritto di cronaca, poi, si accompagna al fiorire diffuso delle circolari-bavaglio che sempre più amministrazioni pubbliche, dalla soprintendenza ai beni culturali romana fino a diverse Asl e aziende ospedaliere, stanno brandendo come minaccia per i dipendenti che dovessero pensare di denunciare pubblicamente i malfunzionamenti o peggio dei propri uffici. E vedremo quale sarà il taglio del nuovo codice di comportamento c il ministero della giustizia si prepara a varare: metterà la museruola ai magistrati? Impedirà alle guardie carcerarie a agli altri operatori dei penitenziari di riferire in che condizioni devono sopravvivere o morire i detenuti?

E non sappiamo cosa accadrà nell’altra tempesta perfetta che sta per scatenarsi sull’informazione (sui cittadini che ne saranno privati soprattutto): la delega al governo sulle intercettazioni, capitolo spinoso perché le norme per evitare abusi ci sono e un inasprimento dei regimi servirebbe solo a impedire di divulgare notizie, di reato ma anche solo di rilevanza pubblica.

Purtroppo, quello che accade intorno a noi risponde allo spirito dei tempi: lo storico e politologo britannico Timothy Garton Ash lancia l’allarme su quella che definisce la crescente “resistenza globale contro  la libertà di espressione”. Dall’osservatorio privilegiato che è il sito freespeechdebate.com che dirige per la Oxford University, Garton Ash ricostruisce la forte accelerazione che questa deriva ha preso negli ultimissimi anni un po’ ovunque, dalla Cina all’Egitto, dalla Turchia alla Polonia, fino all’impensabile Regno Unito, dove le nuove leggi antiterrorismo mettono a rischio la libertà di espressione nelle università e il ministro della cultura ha presentato un disegno di legge per affidare al governo la nomina di metà del consiglio di amministrazione della BBC, mettendo a rischio la sua indipendenza editoriale. D’altra parte a casa nostra il servizio pubblico, in base alla recentissima riforma della governance Rai, risponde già all’esecutivo.  Forse anche noi dovremmo riprendere l’appello del fotoreporter egiziano Shawkan, in carcere da oltre mille giorni: “CONTINUATE A GRIDARE: ‘IL GIORNALISMO NON E’ REATO’”.


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