Probabilmente ricorderete tutti cosa accadde a Chernobyl trent’anni fa, quando l’esplosione di un reattore nucleare causò una delle più grandi tragedie di tutti i tempi, provocando indicibili sofferenze alla popolazione del luogo e un numero impressionante di tumori e leucemie negli anni successivi; senza dimenticare le malformazioni, le mutazioni genetiche e altri orrori di cui in questi tre decenni abbiamo avuto ampia documentazione.
Sappiamo quasi tutto, dunque è bene concentrarsi su ciò di cui si è parlato meno, come ad esempio l’impatto che questo dramma ebbe sulla dissoluzione del blocco sovietico. Non che sia stato il fattore decisivo, intendiamoci, ma non fu certo indolore per l’URSS una catastrofe che indusse molti osservatori internazionali a domandarsi se fosse ancora il caso di sostenere quel modello di industria, di progresso e di sviluppo economico, cominciando a interrogarsi se si trattasse davvero di una prospettiva auspicabile e rivolta al futuro o non fosse, al contrario, una gabbia insostenibile.
Fu allora che anche in Italia si iniziò a riflettere sulla necessità di accantonare le fonti tradizionali di approvvigionamento energetico e di abbracciare le rinnovabili; fu allora che ci si pose seriamente il problema dell’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali; fu allora che cominciò ad affermarsi, anche grazie all’impegno di un intellettuale e politico come Alexander Langer, una sana cultura ambientalista, la quale si affiancò e mise finalmente in discussione tanto il dogma del PIL (caro ai capitalisti d’oltreoceano) quanto l’annullamento della persona e della sua dignità a favore di un collettivo indistinto (caro alla visione sovietica del modello sociale e di sviluppo). Fu allora, in poche parole, che il mondo intero, e l’Europa in particolare, si vide costretta a fare i conti con l’insostenibilità di un bipolarismo forzoso e opprimente, violento e lesivo dei diritti e della dignità umana; e anche se il trentennio successivo è stato egemonizzato da un pensiero unico ancora più dannoso e disumanizzante, bisogna ammettere che oggi abbiamo veramente la possibilità di dire basta: basta con il nucleare, basta con l’annientamento dell’uomo e con l’annullamento della sua personalità, basta con un capitalismo di rapina che costituisce né più e né meno che una nuova forma di regime totalitario, basta con le menzogne di Stato per coprire responsabilità evidenti, basta con tutto ciò che vorrebbe renderci schiavi e, purtroppo, spesso, riesce tuttora nel suo intento.
Chernobyl è stato un risveglio brusco, un incidente che ha scosso le coscienze, una barbarie che ci ha costretto a ragionare su noi stessi e sul destino dell’umanità, un grido della vita che si contrapponeva a quella morte atroce, una rinascita collettiva che si opponeva alla sconfitta dell’uomo andata in scena nei dintorni di quel mostro infernale.
A Chernobyl, trent’anni dopo, dell’uomo non è rimasta traccia: una città fantasma, un monumento all’indecenza di un sistema feroce che di lì a poco sarebbe collassato, un punto di partenza per guardare al domani e costruire una struttura sociale e un modello economico radicalmente alternativo sia al capitalismo di Stato sia al mercato senza regole.
E come tutti i semi, anche se quell’urlo che ha squarciato un silenzio assordante ed omertoso è rimasto sotto terra per troppo tempo, alla fine ha fatto germogliare un fiore che attualmente ci consente di parlare di BES (Benessere Equo-Sostenibile) e non più solo di PIL, di mettere l’uomo al centro di ogni discorso sulla crescita, avendo per di più la Chiesa come fiera alleata, e di dire addio sia alla gabbia dello statalismo esasperato ed esasperante sia alla prigione, non meno opprimente, dell’anti-statalismo ridicolo ed egoista.
Non accadrà domani, forse nemmeno dopodomani, ma prima o poi accadrà perché quel giorno d’aprile di trent’anni fa, a causa di un’esplosione devastante, il mondo capì che non si poteva andare avanti lungo quella strada. E il cammino non si fermerà, non può fermarsi perché nelle coscienze di tutti è impressa una frase apparsa dalle parti di Pryp’jat’: “I vivi chiedono perdono ai morti”. È stato in quel momento che tutti noi, in ogni angolo del Vecchio Continente, abbiamo avvertito il bisogno di ricevere quel perdono, di far sì che, dopo aver detto mai più all’Olocausto nazista, l’uomo dicesse mai più agli Olocausti dettati dallo sfruttamento, dalla sete di potere e di ricchezza e dalle smanie di un’effimera grandezza, per giunta impossibile da raggiungere. In pratica, in quel momento, abbiamo capito di doverci riappropriare di noi stessi.