“Si tratta di restare uomo chi è uomo,
e donne le donne, gentili e libere,
e tutti umani, perchè l’uomo è sempre di meno…”
Queste parole appartengono ad Attila József, poeta ungherese capace di aprire il cuore a un ospite imprevisto povero e umiliato, di far crollare i muri con le sue lacrime di poesia dedicate a un’umanità consumata, per la quale sempre più diventa buio, di vivere i lamenti di un infante costretto dalla guerra a migrare come lo era Aylan Kurdi, ponendolo dinanzi alla soglia del suo cuore in ascolto:
“Vorrei essere un melo selvatico,
un ramificato melo selvatico;
e così ogni bambino affamato
coperto dalle mie ombre
si sazierebbe del mio corpo”.
Esistono uomini che immaginano di nutrire gli ultimi, i sopravvissuti, gli esuli, di carezzare con la propria anima la loro mestizia e il loro dolore, e poi oggi sulla stessa terra d’Ungheria esistono uomini come Viktor Orbán che costringono migliaia di profughi alla disperazione, privandoli della libertà e del sogno, desiderandone la scomparsa immediata, obbligandoli a una marcia di speranza verso un confine in cui sopravvivere, negandogli un Train de vie. Un treno come quello che ha spezzato precocemente la fragile esistenza di Attila József, perché come credeva il poeta ungherese di amore si muore, lo sanno le donne gli uomini e i bambini che attraversano con purezza la paura solo per sfiorare un’idea di libertà:
“O Europa, quante frontiere
ed in ciascuna gli assassini,
non lasciar ch’io pianga la ragazza,
chi partorirà fra due anni”.
Attila József
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