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Il giorno dopo nessuno ha in mano un giornale. Reportage su Parigi e gli attentati (2a parte)

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«Ma siamo sicuri che è aperta la metro, stamattina? Secondo me sarà deserta». Giovedì 8 gennaio. Parigi, il giorno dopo l’attentato che ha scioccato il mondo, si risveglia sotto una pioggia fitta e sottile.
La metropolitana, nonostante i timori della nostra amica, funziona regolarmente, e quando entriamo, a Porte d’Orléans, ci accorgiamo che in realtà non è affatto meno trafficata del solito. Quello che ci colpisce, invece, è constatare come nessuno, tra le decine di persone che ci sfilano a fianco, fermata dopo fermata, abbia in mano un giornale. C’è chi ascolta la musica, chi legge un libro, chi appoggia la testa contro lo schienale e chiude gli occhi. E poi, ovviamente, ci sono i turisti, che diventano sempre più numerosi man mano che da Montparnasse il treno avanza verso Saint-Michel: e che li riconosci subito, oltre che dalle guide che sfogliano sorridendo, dallo stupore con cui osservano l’ingorgo di colori sulla piantina della metro, o dall’ansia con cui contano le fermate che mancano alla loro destinazione. Eppure nessun giornale.

Si pensa che il modo in cui una metropoli si risvegli dopo un trauma sia un misto di ansia e smarrimento che rende deserti i luoghi solitamente affollati, e che soprattutto spinge a capire, a interrogarsi. È certo che quest’angoscia abbia invaso anche Parigi, da ieri pomeriggio; eppure, semplicemente, non la si percepisce nei volti e nei gesti di chi ci circonda. Davanti a Gare de l’Est, un mio amico mi fa notare un gruppo di tre militari, coi giubbotti antiproiettile e il mitra in braccio. «Qui si capisce – mi dice – che c’è qualcosa di strano». Ma in realtà, quelle pattuglie girano per Parigi già da molti mesi. Non saprei dire da quando, ma posso dire che ormai c’ho fatto l’abitudine. La prima volta che ne incontrai una era l’ottobre scorso: era una sera apparentemente tranquilla, e stavo seduto con alcuni miei compagni dell’università sulla scalinata davanti al Sacro Cuore, a Montmartre. Quando vidi sfilare quei tre militari, coi mitra a tracolla, a pochi metri da noi, pensai che fosse successo qualcosa di tremendo, prima di notare un’inspiegabile indifferenza sulle facce dei miei amici. Era un’ordinaria misura di sicurezza, mi spiegarono.

Arriviamo davanti alla cattedrale di Notre Dame nel momento in cui viene annunciato il minuto di silenzio in onore delle vittime dell’attentato. Il piazzale è gremito, la pioggia ne ha trasformato lo strato di ghiaia in fanghiglia. Alcuni cacciano dalle proprie tasche una matita, ma quasi nessuno stende il braccio in aria; c’è chi si lascia andare al pianto, chi forma un cerchio, stringendo la mano dei propri vicini, e prega. E c’è, nel frattempo, una frotta di giornalisti da tutte le parti del mondo, che continua a chiedere – con più o meno discrezione, con più o meno delicatezza – se si abbia voglia di dire qualcosa; e c’è anche una massa scomposta di turisti, piuttosto eterogenea, che continua a far la fila per entrare a Notre Dame; e poi c’è l’altra fila, quella per conquistare gli ambiti podi di cemento, di fronte alla cattedrale, sui quali salire per scattarsi un selfie con il grande rosone alle spalle: ormai, con i bastoni allungabili, azzeccare l’inquadratura giusta è diventato estremamente facile, ma non sono pochi quelli che, data l’occasione speciale, stamattina decidono di voltarsi, e immortalarsi in mezzo alla folla in raccoglimento.

Attraversiamo la Senna, risaliamo Rue Saint Jacques fino a raggiungere il Panthéon. Davanti la chiesa di Saint Étienne du Mont, una signora si cambia le scarpe prima di entrare. Entriamo anche noi. Lo jubé con le sue scale attorcigliate intorno alle colonne riesce a stupire ogni volta. Nel deambulatorio, davanti la teca delle ceneri di Saint Geneviève, il quaderno delle dediche è pieno di invocazioni alla patrona di Parigi per le vittime della strage, per l’unità della Francia, per la pace.

Rue Mouffetard, nel cuore del Quartiere Latino, è viva e accogliente come al solito. Ci fermiamo a mangiare un hamburger, poi qualcuno propone di andare a vedere la Sorbona. Davanti l’entrata principale dell’università, tre gendarmi controllano l’accesso. «Ci faranno passare?», mi domanda un’amica, che nel frattempo s’è già avvicinata al portone. «Scusate – chiede, in un francese chiaramente turistico – è possibile dare uno sguardo?». «Solo se ti fai accompagnare da me», le risponde un agente, convinto di non essere compreso. Poi si scambia un’occhiata complice coi suoi colleghi, e tutti e tre scoppiano a ridere. «Cosa mi ha risposto?», ci chiede perplessa la nostra amica. «Che non possiamo entrare», taglio corto.

L’aria comincia a scurirsi, sono le cinque del pomeriggio. «Se saliamo ora sulla Tour Eiffel, possiamo guardarci tutta Parigi che si illumina», propone la stessa amica, decisamente iperattiva. «Ma sarà sicuro?», si oppone uno di noi. «Senza dubbio è il posto più sorvegliato di tutta Parigi», ribatte lei. Percorriamo il lungosenna dall’Île de la Cité fino al Trocadero, e quando arriviamo alcuni di noi sono in preda alla fame. Sotto la torre, l’unica cosa commestibile che troviamo ad un prezzo non indecente, sono delle banane a un euro l’una. Il serpentone di persone in fila è lunghissimo, come sempre, ma avanza velocemente. «Chissà quante storie faranno per i controlli!», osserva un mio amico. E invece no. Quando arriviamo all’ingresso, ci fanno aprire gli zaini, ci danno un’occhiata, ci invitano a procedere. «Ma che piacere avere con noi una così bella visitatrice», afferma una delle guardie all’ingresso, rivolgendosi con un’espressione idiota alla solita amica che si è lanciata davanti a tutti noi per testare il suo francese. Ma anche stavolta, è costretta a girarsi e chiederci di tradurre.

Saliamo fino alla terrazza dell’ultimo piano della torre. C’è un vento terribile, ma che ovviamente non dissuade dal restare qualche minuto con la faccia schiacciata contro la rete di sicurezza, ad osservare la geografia caotica delle luci di Parigi. Da quassù, anche la frenesia di sempre sembra avere un senso, sembra trovare un ordine.


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