Non si può che esprimere riprovazione e condanna assolute per il gesto di due giovani palestinesi che il 18 novembre, gridando Allah o akbar («Dio è il più grande»), sono entrati nella sinagoga Kehilat Bnei Torah, situata nella parte più occidentale di Gerusalemme, ed hanno ucciso quattro rabbini intenti alla preghiera, e poi un poliziotto, prima di essere a loro volta freddati. Con il loro gesto fanatico di profanare un luogo di culto, dando un carattere religioso alla loro azione, i due palestinesi ventenni di Gerusalemme-Est potrebbero innescare, da parte israeliana, reazioni a catena tali da incenerire ogni ipotetico processo di pace. Vale forse la pena di ricordare che, dopo la strage compiuta il 25 febbraio 1994 da Baruch Goldstein nella moschea della tomba dei patriarchi ad Hebron, in Cisgiordania – dove il medico, ebreo originario di New York, e dimorante a Kiriat Arba, una grande colonia ebraica costruita accanto alla città araba, uccise ventinove palestinesi e ne ferì un centinaio – per vendetta si innescò in modo programmatico il kamikazismo dei movimenti oltranzisti palestinesi.
Sembrano essere «lupi solitari» – come quelli che a Gerusalemme investono con l’auto persone che aspettano il bus – i due kamikaze, perché non è chiaro se essi fossero militanti inviati ad hoc dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina, una formazione minore che osteggia al-Fatah, il partito di Yasser Arafat e, ora, del presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Quest’ultimo, comunque, ha condannato con parole inequivocabili l’attentato in sinagoga mentre, al contrario, dirigenti di Hamas (il Movimento di resistenza islamico che domina la Striscia di Gaza) lo hanno definito «atto eroico»: una valutazione ripugnante. Da parte sua, il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha accusato Abbas di essere il mandante morale dell’attentato, e assicurato che Israele, «sotto attacco», saprà difendersi: per ora ha fatto radere al suolo le case ove vivevano i due attentatori, ma altre misure sono da attendersi.
Il tutto avviene in un preciso contesto geopolitico. Nell’aprile scorso, dopo nove mesi di trattative, è fallito il tentativo del segretario di Stato americano John Kerry di portare le due Parti alla firma di un accordo-quadro: infatti, nessuna «concessione» sostanziale ha fatto Netanyahu sui punti «caldi»: confini definitivi tra Israele e il costituendo Stato di Palestina, status di Gerusalemme (i palestinesi rivendicano la parte est, occupata da Israele nel 1967, come capitale del loro futuro Stato), profughi, insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata. Poi in estate è scoppiata la guerra contro Gaza, con i suoi orrori (vedi Confronti 10/2014). Nel frattempo, in aprile, al-Fatah ed Hamas – dopo sette anni di invalicabile contrapposizione che aveva portato ad una diarchia di potere nel campo palestinese – avevano deciso di formare un governo di unità nazionale, creato di fatto in settembre; un governo che ora potrebbe già traballare. Nel frattempo, da Svezia e Gran Bretagna in ottobre e da Spagna in novembre si sono levati riconoscimenti dello Stato di Palestina, e altri paesi occidentali, quali la Francia, potrebbero ora aggiungersi: tutte iniziative che hanno assai irritato Netanyahu e il suo ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, che le hanno definite sprezzantemente «ostacoli alla pace». Invece Barack Obama, azzoppato dalle elezioni di mid-term di novembre, che hanno dato la maggioranza ai repubblicani sia al Senato che alla Camera, non potrà più fare, per risolvere il nodo di Gerusalemme, quello che non ha fatto nei sei anni passati. Da parte sua, il generale Abdel Fattah al-Sisi, rais dell’Egitto, ha proposto di inviare soldati egiziani a Gaza, per controllare la situazione nella Striscia e rassicurare Israele: ma questo scenario potrebbe aprire un nuovo fronte di guerra tra Egitto e Hamas.
E, intanto, il fuoco divampa in Siria ed Iraq, dove l’organizzazione dello Stato islamico (il cosiddetto «califfato») avanza, non domata dalla coalizione guidata dagli Usa, e ogni tanto dimostra al mondo di esistere sgozzando qualche prigioniero; il Libano è in un vicolo cieco perché, dopo sei mesi di tentativi, il Parlamento, per contrasti intra-maroniti e tra sunniti e sciiti, ancora non elegge il presidente che – stando al «Patto nazionale» che regge il paese – dovrebbe essere un cattolico maronita. Pesa, in questa faccenda, anche il ruolo dei sauditi e degli iraniani.
E il 24 novembre, nei negoziati di Vienna i cinque membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania, non sono riusciti a chiudere con l’Iran l’accordo sul nucleare. La scadenza è differita a fine giugno 2015, ma Netanyahu – contrarissimo ad un patto che secondo lui favorisce Teheran – spera che non si arrivi a nulla.
Infine, il 23 novembre Netanyahu ha proposto ai ministri del suo governo – che hanno approvato con quattordici sì e sei no – una legge che definisce Israele «Stato della nazione ebraica»: un’idea sempre avversata dagli arabo-israeliani, il 20% della popolazione dello Stato, che non vogliono diventare cittadini di serie B. La norma, che dovrà essere valutata dalla Knesset, è un colpo di maglio contro ogni ipotesi di pace («irresponsabile», l’ha definita il leader laburista, all’opposizione, Yitzhak Herzog); essa, d’altronde, viene dopo una serie di misure – come l’inarrestabile espansionismo degli insediamenti, o lo strizzare l’occhio ai gruppi estremisti ebraici che a Gerusalemme vorrebbero riprendersi la Spianata delle mosche (Monte del tempio per gli ebrei) – fatte apposta per esasperare i palestinesi.
Il Medio Oriente è in fiamme, ma il centro del fuoco è a Gerusalemme. Se la pace giusta non spunta sulle colline della Città santa, non nascerà in nessun’altra parte della regione.
(pubblicato su Confronti di dicembre 2014)