No, non morirò (fin che nostro Signore non vorrà). E dubito che l’aver toccato qualche filo (Barbara D’Urso, ma solo per cominciare) possa sollecitare l’attenzione di chi sta lassù. Non intendo mescolare sacro e profano, ma dire fin da subito che questa battaglia non la abbandono: me lo impone la coscienza. Si sono mobilitati in tanti, puntualmente.
Ex iscritti all’Ordine, diventati tali – come la stessa D’Urso – per una scelta “morale”: la pubblicità rende e i giornalisti non possono farla. E’ una norma a tutela dei cittadini che debbono potersi fidare di quel che leggono o ascoltano, senza avere il sospetto che lo si scriva o lo si dica per interessi terzi rispetto alla verità.
Qualche iscritto all’Ordine che ha un’attenzione strabica per l’articolo 21 della Costituzione. Ricordo chi nel 2010 tentò di lapidarmi perché avevo offerto ospitalità ad una collega, Angela Lano, che presentava un suo libro sulla Freedom Flotilla 1. Era a bordo di quella nave che voleva portare soccorso ai palestinesi di Gaza. Finì in una prigione israeliana, dopo un assalto dei corpi speciali. No, quel libro doveva essere “bruciato”, a prescindere, non se ne doveva né poteva parlare. Tanto meno nella sede dell’Ordine, pur se scritto da una giornalista. Lo presentarono ed io usai parole forti per chiedere rispetto per la vita di tutti: palestinesi e israeliani.
Ci sono veri professionisti di battaglie contro. Spesso sono gli stessi che denunciano il degrado morale, il maramaldeggiare dei “forti” a danno degli indifesi, le sofferenze delle persone più deboli. E lo fanno con sottile e incomprensibili distinguo o sollecitando il consenso di quella parte della società che ha bisogno estremo di avere compagnia della tv nel pomeriggio o ama il gossip perfino sul morti. Chi è più debole di Elena Ceste? Chi è più indifeso dei figli di Elena Ceste? Nessuno osava dire basta. Non le tante associazioni delle donne, non le tante authority di questo Paese, non gli Osservatori sui minori e i loro diritti. Tutti a guardare dall’altra parte perché essere invitati nel salotto buono della tv dà visibilità, fa vendere copie di libri, garantisce un ritorno di popolarità appannata dagli anni che passano e dalle rughe che solcano il viso.
Lo ha fatto l’Ordine dei giornalisti e continuerà a farlo, non per volontà del suo Presidente pro tempore, ma per decisione unanime dell’Esecutivo che ha stanziato anche adeguate risorse per continuare in questo impegno. Sono finiti i tempi della tolleranza, dello strizzare gli occhi agli amici, compiacendoli e appagandone la vanità, ad esempio, in scuole di giornalismo che erano autentici furti di sogni e di danaro nelle quali nulla o quasi si insegnava: tanto meno la deontologia professionale.
Se errore c’è stato è quello di aver mescolato la denuncia dello scandalo con quella per esercizio abusivo della professione. Il che ha consentito alle “vestali” dei diritti di urlare la loro indignazione, in uno scambio autoreferenziale di pacche sulle spalle. E i doveri? Un altro giorno. Strano mondo, questo nostro. I reati sono previsti dal codice, ma basta far finta di non vederli, decretando a convenienza che non è il caso di evocarli. Può anche darsi che questi atteggiamenti valgano un invito in una qualche trasmissione, un bel riflettore in volto per sfogarsi per qualche frustrazione personale.
Ma dei diritti di Elena Ceste e di quelli dei suoi figli qualcuno doveva occuparsi. In una delle tante puntate di questa trasmissione della signora D’Urso (il 23 novembre), uno degli ospiti – un fidanzato della signora Ceste ai tempi delle medie, credo – avverte che “Elena ha quattro figli, una ha 14 anni e va a scuola”. Come se nulla fosse, pronto un altro collegamento con chi, Tony, dice che con Elena si erano ritrovati via Facebook per prendere un caffè, due volte, a casa sua: niente altro. La raffica di domande cariche di morbose insinuazioni ha il culmine in questa: “Ma tu ai Carabinieri hai detto una cosa diversa. No, non rispondere, Tony, mandiamo la pubblicità”. E alla ripresa, Tony: “Non è vero che ho detto questo ai Carabinieri”.
Fosse stata ancora giornalista, la signora D’Urso sarebbe sotto procedimento disciplinare perché quel modo di fare informazione viola molte norme del nostro codice deontologico. I colleghi ne sono consapevoli. Ma il silenzio di chi avrebbe potuto e dovuto intervenire, ha costretto a dire basta, anche perché tra faccette, lacrime e ammiccamenti la signora D’Urso continua a fare riferimento alla attività tipica del giornalista.
Chi si strappa i capelli in nome della libertà di espressione, recuperi il tempo per sollecitare rispetto reale per i morti e per i più deboli, come i figli di Elena Ceste. Ne guadagnerà in dignità. Chi vuole continui pure, anche con i suoi distinguo, a bearsi di questi profumi.