La Rai è sempre un laboratorio in cui si incrociano arretratezze patologiche e anticipazioni –al contrario- del clima generale. E’ un’azienda sui generis, di sovente rabdomantica, visto che una parte cospicua del ceto politica la corteggia “per esserci”, disvelando così umori e logiche di potere, che si intuiscono meglio che altrove. Tuttavia, un punto è certo, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale: l’indirizzo e la vigilanza del servizio pubblico stanno in capo al Parlamento, attraverso l’apposita commissione bicamerale, cui spetta l’elezione di sette componenti su nove del consiglio di amministrazione. Ecco, una della poche certezze della società di viale Mazzini di Roma. Eppure, ha destato scandalo e clamore la decisione assunta dalla maggioranza del cda di adire le vie legali contro il decreto governativo dell’aprile scorso che tagliava dai proventi del canone 150 milioni di Euro, in corso di d’anno, a bilancio preventivo già definito. Nei giorni scorsi –con l’adesione dell’Associazione Articolo 21- i sindacati di categoria di Cgil e Uil, nonché Federconsumatori e Adusbef avevano annunciato analogo ricorso. Anzi, aggiungendo una specifica iniziativa sulla cessione di quote della società degli impianti Raiway, che -tra l’altro- ha fatto il suo conclamato esordio sul mercato borsistico.
La decisione conflittuale dell’organo di amministrazione è stata appoggiata da sei consiglieri su nove: astenuta la Presidente Tarantola, contrari Luisa Todini (scelta in verità da tempo annunciata, vista la ingombrante compresenza nel consiglio delle Poste) e Antonio Pilati, ora filoRenzi-governativo. Però. A favore, pure, il rappresentante del Ministero dell’economia Pinto. Diciamo la verità: una Waterloo dell’Esecutivo. Che ora, insieme ai partiti che lo sostengono (in primis, il Partito democratico), non può protestare come se nulla fosse. Quante lacrime di coccodrillo. Dopo aver annunciato urbis et orbi come un brand di marketing la riforma della governance, quella che vorrebbe fuori i partiti. E, infatti, qui i partiti c’entrano poco, essendo piuttosto in gioco la tenuta di un’azienda, che già subisce un forte calo della raccolta pubblicitaria. Ci rifletta il sottosegretario Giacomelli. In luogo di invettive che assomigliano alle grida manzoniane, urge se mai una visione che valorizzi la Rai come bene comune nell’età della rete. E la riforma ci vuole davvero, ma non per l’ultima decisione, bensì per le incongruenze generali di un sistema retto tuttora dalla legge Gasparri di dieci anni fa e inquinato dalle logiche del conflitto di interessi. E che ne è delle nuove disposizioni sul canone, visto che siamo a fine anno? A proposito di canoni. Ci si poteva attendere qualche reazione altrettanto veemente da parte del cda della Rai, allorché l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni alleggerì non poco il corrispettivo economico dovuto per l’uso delle frequenze, uno sconto che dava un certo agio alla concorrenza, e non solo all’azienda pubblica. O no? Certo, il coraggio non va esercitato a giorni alterni. O lo si ha, o non lo si ha, per rinviare alle citazioni manzoniane.