Il 18 ottobre 1984 la Cassazione fissò per la prima volta una sorta di “decalogo” cui ogni giornalista doveva attenersi scrupolosamente per evitare una condanna ad un risarcimento danni in sede civile per un articolo ritenuto diffamatorio. Fu una decisione epocale di cui all’indomani riferii per primo sul “Corriere della Sera”. La notizia ebbe un grande risalto soprattutto grazie al felice intuito dell’allora capo della redazione romana del quotidiano milanese Antonio Padellaro (poi Vice Direttore de “L’Espresso” e Direttore de “L’Unità” e de “Il Fatto Quotidiano”) perché lo scoop fu pubblicato in 1^ pagina e addirittura in apertura del giornale e ripreso poi nei giorni successivi sulla stampa italiana ed estera.
Da allora sono trascorsi 30 anni e si é purtroppo avverato quanto già si paventava, cioè il via libera al bavaglio della libertà di stampa.
Cercherò di spiegarne in sintesi i motivi.
In Italia si parla di diffamazione sin dall’art. 28 dello Statuto Albertino del 1848. Ricordo che lo stesso Sindacato dei giornalisti (A. S. P. I. – Associazione Stampa Periodica Italiana, poi confluita nell’Associazione Stampa Romana dopo la 1^ Guerra Mondiale) nacque 137 anni fa dopo un duello per un articolo ritenuto diffamatorio. La sfida, avvenuta a Roma la sera del 18 maggio 1877, fu vinta dal deputato Augusto Pierantoni (avvocato, deputato radicale per molte legislature e genero del ministro della Giustizia Pasquale Stanislao Mancini) – che, soprattutto grazie alla sua altezza quasi come un corazziere, ferì in allungo all’avambraccio dopo tre attacchi il giornalista del “Fanfulla” Fedele Albanese.
Ma a differenza di altre materie molto meno importanti sulla diffamazione vi é sempre stato molto fumo e poco arrosto. E a livello legislativo si sono registrati solo pochissimi interventi, direi quasi con il contagocce. Il 21 febbraio 1948 entrò in vigore la legge sulla stampa (è la n. 47) che consentiva a chiunque si ritenesse leso da un articolo diffamatorio di presentare entro 90 giorni un querela in sede penale. E solo in caso di condanna penale definitiva del giornalista ci si poteva rivolgere alla magistratura civile per ottenere un adeguato risarcimento.
La Cassazione con la sentenza n. 5259 del 18 ottobre 1984 della prima sezione civile, redatta dal consigliere Renato Borruso (vedere allegato in calce), rappresentò la svolta, pur in assenza di precise norme di legge. La Suprema Corte aprì infatti le porte al giudizio civile di risarcimento danni a prescindere dalla presentazione della querela in sede penale.
In pratica, fu una vera e propria rivoluzione di cui si sono visti i disastrosi risultati: da 30 anni a questa parte si é registrato il graduale crollo delle querele in sede penale sostituite dall’aumento esponenziale delle vertenze civili per risarcimento da diffamazione molte delle quali temerarie perché accompagnate da richieste astronomiche per danni al fine mirato di imbavagliare la libertà di stampa.
Peraltro va ricordato che se un cittadino, che si ritiene diffamato da un articolo, presenta una querela in sede penale che viene poi archiviata o bocciata nel merito dalla magistratura, il giornalista può presentare a sua volta una denuncia penale per calunnia. Viceversa in caso di azione bocciata dalla magistratura civile il cittadino presunto diffamato non rischierebbe mai una condanna per calunnia, ma tutt’al più un ristoro delle spese legali e solo in casi rarissimi anche un risarcimento per lite temeraria. Questa profonda differenza tra penale e civile spiega il boom dal 1985 in poi delle cause civili di diffamazione rispetto alle querele in sede penale.
I maggiori beneficiari della sentenza della Cassazione del 1984 sono stati i magistrati e gli avvocati. I primi rappresentano infatti circa il 50% dei danneggiati in Italia da articoli ritenuti diffamatori sui quali sono poi chiamati a pronunciarsi altri loro colleghi, mentre i secondi hanno difeso in 30 anni in migliaia di cause, da una parte, i presunti diffamati, e, dall’altra, i presunti diffamatori.
Vi sono stati così parecchi magistrati ritenutisi diffamati che, pur non perdendo neppure un euro del loro lauto stipendio mensile, hanno ottenuto risarcimenti molto elevati e persino del tutto esentasse (anni fa finì nel cestino la proposta del defunto ex Presidente della Corte Costituzionale Vincenzo Caianiello di devolvere alle vittime del terrorismo, della mafia, della camorra e della n’drangheta gli indennizzi per diffamazione liquidati in favore dei magistrati proprio perché in concreto non avevano subito alcuna decurtazione patrimoniale).
Il tutto condito anche dalla violazione del diritto di difesa sia del giornalista autore dell’articolo ritenuto diffamatorio, sia del direttore responsabile. E ciò dovuto all’incomprensibile differente tempistica prevista: purtroppo dai soli 90 giorni per presentare una querela in sede penale si é infatti passati dopo la sentenza della Cassazione del 1984 a ben 5 anni (o addirittura a 10 anni in caso di diffamazione aggravata) in applicazione automatica di una norma del codice civile (l’art. 2947) che era, però, nata per ben altri scopi che non il risarcimento dei danni da diffamazione!
La riforma in Parlamento della diffamazione di cui si parla ormai da decenni senza che si approdi mai a nulla di concreto non ha volutamente preso in considerazione le reali problematiche legate ai termini di prescrizione e decadenza. Nel 2004 il Senato fissò il termine in 1 anno dalla pubblicazione dell’articolo ritenuto diffamatorio (il provvedimento finì poi in un cestino di Montecitorio), mentre il 17 ottobre 2013 la Camera ha fissato la prescrizione in 2 anni dalla pubblicazione dell’articolo ritenuto diffamatorio, termine confermato anche dalla Commissione Giustizia del Senato nel disegno di legge S. 1119, che dal 9 ottobre scorso é all’esame dell’aula di Palazzo Madama.
Ma i nostri moderni soloni non hanno minimamente valutato gli effetti pratici dei termini di decadenza di un giudizio civile per danni da diffamazione rispetto a quelli di una querela in sede penale. E soprattutto non hanno tenuto conto della realtà e del bombardamento di notizie che quotidianamente attraversano il mondo della globalizzazione.
E se passa troppo tempo tra l’articolo diffamatorio e la causa civile nessun giornalista è più concretamente in grado di difendersi non avendo più appunti, documenti, nastri, bobine, cd o videocassette e gli stessi giornali ripuliscono periodicamente i loro archivi informatici.
In Parlamento si continua invece a dibattere sostanzialmente sull’abolizione del carcere per il giornalista che diffami un cittadino, nonostante questa sanzione sia stata ormai di fatto cancellata dalla Corte Europea di Strasburgo con ripetute sentenze applicabili anche in Italia.
Cercherò con esempi pratici che mi hanno visto protagonista in prima persona di spiegare meglio le assurdità del differente termine di 1, 2 oppure di 5/10 anni per l’azione civile di risarcimento danni da diffamazione rispetto ai soli 90 giorni fissati per la querela.
Il sottoscritto parla con un minimo di cognizione di causa, vantando in proposito alcuni record. E’ stato il primo in Italia ad essere citato in giudizio civile per un articolo ritenuto diffamatorio pubblicato 5 anni prima sul “Corriere della Sera” e per lo stesso articolo il primo in Italia a subire un’azione civile di manleva (cioé di rivalsa) da parte del Gruppo R.C.S., editore del “Corriere della Sera” circa 5 anni e mezzo dopo (cioé quasi 4 anni dopo essere stato nel frattempo assunto a “La Stampa”).
Come cronista giudiziario del “Corriere della Sera” scrissi infatti il 19 luglio 1983 un articolo (che uscì con la mia sigla) sulla vicenda in Cassazione riguardante il celebre caso Calvi/Ior/Banco Ambrosiano per il quale non ricevetti mai alcuna contestazione né scritta, né verbale. Il 1° gennaio 1985 passai a “La Stampa”. Il 6 dicembre 1988 ricevetti dall’ufficiale giudiziario un atto di citazione da parte del “Corriere della Sera”, difeso dal compianto avvocato Corso Bovio, in cui mi si comunicava che un legale romano si era ritenuto diffamato dal mio articolo del 19 luglio 1983 e ne pretendeva un adeguato indennizzo dal giornale milanese che egli aveva direttamente chiamato in giudizio con un atto di citazione spedito da Roma il 19 luglio 1988, cioé per la precisione 5 anni esatti dopo la sua pubblicazione.
In pratica, il presunto diffamato, cioé il legale romano, era rimasto in assoluto silenzio, o meglio in letargo, per 5 anni scadenzando come una cambiale al 19 luglio 1988 la richiesta di indennizzo, sperando evidentemente che io avessi perso tutta la documentazione per difendermi. Non si spiega altrimenti un silenzio assoluto durato per 5 anni. Ma nel mio caso, poiché la vertenza inizialmente riguardava solo il legale e il mio giornale di allora, ne fui concretamente informato il 6 dicembre 1988, cioè addirittura quasi 5 anni e 5 mesi dopo.
* Presidente del Gruppo Romano Giornalisti Pensionati presso l’Associazione Stampa Romana