Sono le 2 e mezza di notte. Ho fatto la Rassegna stampa a Rainews24. Ho parlato di Padre Paolo Dell’Oglio e, per l’ennesima volta, ho cercato un titolo di giornale che potesse avere a che fare con la sua storia. Capita spesso che, nel fare la rassegna stampa, mi trovi ad affrontare temi che ritengo sensibili per formare una opinione pubblica cosciente (dico cosciente ma potrei dire informata), e poi scopro che quel tema, nel flusso ordinario di notizie, non c’è. E’ l’omologazione dell’informazione che è il peggior nemico della buona informazione.
La storia di Paolo dell’Oglio è quella di un padre gesuita, rapito un anno fa, che aveva intuito, prima di ogni diplomazia, che esportare la democrazia con le armi non è proprio una soluzione utile a dare pace al mondo. Noi, come ha detto Riccardo Cristiano che era ospite in trasmissione, ce ne rendiamo conto a distanza di anni e oggi, quando non sappiamo se potremo riabbracciare padre Paolo né se possiamo piangerlo, ci accorgiamo di quanto potesse essere stato profetico. In rassegna stampa ho anche parlato di un campo scuola per ragazzini da 11 a 17 anni organizzato dal dipartimento nazionale di Protezione Civile. Uno dei 165 in Italia che coinvolgono 7000 ragazzi. La mia testata ne ha parlato per 6 minuti e 11 secondi: voglio essere preciso. Qualcuno può dire: cosa c’entra questo con un dibattito legato al futuro della Rai, al futuro del servizio pubblico? Invece no. C’entra… eccome se c’entra.
Il dibattito sul futuro della mia azienda rischia di essere orfano proprio perché la politica – non solo quella di partito ma anche quella chiamata a riformare questa mia azienda – rischia di pensare al contenitore e non al contenuto. Sono mesi, anni, decenni, che ci si interroga su come cambiare la Rai senza fare i conti con la mission ed il significato di servizio pubblico. Nell’arco di pochi giorni ho sentito dire, per esempio, che il Tg2 si sarebbe potuto fondere con Rainews24; che il futuro della testata parlamentare sarà in Rainews24; che farà capo alla testata di Rainews 24 il Tg3 e le testate regionali. Ma non ho trovato nessuno che rispondesse ad una sola domanda. Perché?
Mi aspetterei che, di fronte ad una proposta, ci fosse una scelta ponderata che la giustifichi. Non mi spaventano le proposte di riforma se alla base delle stesse ci fosse una strategia non dico condivisibile ma almeno comprensibile. Se ne parlava fin dai tempi della direzione di Roberto Morrione. Per esempio io sono convinto che la forte collaborazione tra testate regionali e Rainews 24 possa essere positiva. Ci sarebbe un network formidabile di presenza nel Paese, la possibilità di dare una informazione locale, glocale e globale; sarebbe la base di una presenza davvero concorrenziale dell’all news Rai. Ma se, al contrario, il ragionamento che sta alla base della proposta è solo frutto di voler risparmiare, diminuire il numero delle direzioni, accorpare alcune testate solo per la paura che qualcuno arrivi tra poco a dire semplicemente “la Rai è una sacca di privilegio e per questo alcune reti e testate vanno vendute o chiuse” non può bastare. Non basta perché senza progetto e con proposte che rischiano di essere superficiali, magari ti accorgeresti troppo tardi di avere ceduto asset particolari utili o addirittura essenziali al tuo sviluppo.
Nessuno parla, o se lo fa non se ne vede traccia, della possibilità di definire un’offerta televisiva internazionale mettendo a disposizione i segnali di trasmissione estera che l’azienda ha e che ora, dopo la chiusura nei fatti di Rai International, non ha una precisa valenza editoriale. Si dice sempre che fuori dall’Italia c’è ne è un’altra che vuole mantenere un legame con noi. Ma non è dato sapere se nel ripensare il servizio pubblico si pensa a qualcosa di particolare per loro.
Il futuro della Rai non può nascere dalle trincee di una guerra di posizione. Il futuro di quest’azienda può essere davvero futuro se da un ampio e difficile sforzo di partecipazione tra tutte le figure professionali che quest’azienda ha, si arriverà a rideterminarne la missione. Se è puramente o prioritariamente “di mercato” si deve ragionare in un modo. Se la mission è invece “di servizio pubblico” i parametri alla base di un progetto sono davvero diversi. In qualsiasi statuto (dall’azienda alla più piccola associazione), ci sono tre elementi fondamentali.
La compagine sociale: da chi è fatta e in quali termini i soci contribuiscono al successo dell’impresa. L’oggetto sociale: quali sono gli obiettivi e i campi di azione che si intendono perseguire e i campi di intervento La governance, ovvero la struttura di governo dell’azienda. Poi c’è il capitolo, successivo, delle risorse e professionalità che aiutano a perseguire gli obiettivi fissati dall’oggetto sociale. Infine, all’esterno della società, c’è il mercato con cui ti devi confrontare nella sfida per la competitività. I tre “pilastri” della nostra azienda sono pilastri “vecchi”, che non tengono conto dell’attuale quadro di mercato. C’è una governance che è emanazione della politica e che pensa all’azienda come se fosse la terza camera della Repubblica. Una politica che 10 anni fa difendeva l’azienda dalla legge Gasparri e che ora ha Gasparri come paladino per la difesa dell’azienda dal rischio di diminuzione del pluralismo.
C’è una contrattualistica delle professionalità interne fissata in un tempo in cui la tecnologia a disposizione era un’altra, in cui la produzione era diversa, in cui si lavorava in completa assenza di concorrenza. In tutto questo caos non esiste un progetto unitario che parta dallo studio di ciò che siamo e di ciò che dovremmo essere. E le professionalità interne, divise in eccessive sigle sindacali che tendenzialmente pensano alla conservazione delle proprie posizioni, non hanno permesso che dall’interno ci fosse una proposta alternativa a quelle raffazzonate della politica.
Così la logica del divide et impera, che la politica ha utilizzato in decenni di storia della Rai, rischia oggi di diventare un virus intrattabile che ci sta portando ad una sorta di “agonia inconsapevole” come se fossimo tutti sottoposti a dosi pesanti di morfina. Se le carenze un tempo venivano compensate dall’assenza di concorrenti, ora questa rendita di posizione non esiste più.
Ma non sarebbe affascinante che tutte le maestranze di questa azienda, di comune accordo, offrissero al dibattito di riforma un proprio progetto unitario? E se la divisione interna è troppo accesa, perché non si riesce a individuare almeno, insieme, una serie di professionalità che hanno contribuito allo sviluppo di altri servizi pubblici europei affidando loro un compito: quello di studiare la Rai come è e poi definire una serie di linee generali per una riforma che tutti riteniamo necessaria?
Fuori da questo quadro di insieme risulta impossibile affrontare il tema dei contenuti, che passa in un eterno secondo piano e che invece, per un’azienda che fa servizio pubblico, dovrebbe essere il tema dei temi. Torno alla premessa. Forse, dico forse, avere delle notizie nel servizio pubblico che non entrano nel flusso ordinario quotidiano, significa fare servizio pubblico. Forse raccontare e approfondire temi di politica interna e di politica estera magari noiosi ma che incidono nella vita delle persone è servizio pubblico. Forse essere i primi a raccontare il disagio di alcuni territori preda della criminalità, altri devastati dalle emergenze ambientali, approfondire temi come l’immigrazione non solo nel pieno degli sbarchi o dei naufragi delle carrette del mare è servizio pubblico; forse raccontare l’Europa non solo a ridosso delle elezioni è servizio pubblico, forse confrontare le opinioni di costituzionalisti di fronte alla riforma Costituzionale (senza dare solo alla politica il ruolo di protagonista delle decisioni) è servizio pubblico; forse raccontare la storia di Padre Paolo è servizio pubblico; forse essere i primi a scoprire il crack della Parmalat senza affidarsi alla protesta di un comico è servizio pubblico; forse dare spazio alla cultura troppo spesso penalizzata è servizio pubblico.
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