Noi, le ragazze rapite e il gigante d’Africa

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In un intervista rilasciato alla BBC, parlando delle 276 ragazze rapite il 14 aprile scorso dal gruppo terrorista Boko Haram (letteralmente dalla lingua haussa “l’educazione occidentale è peccato”), il premio Nobel nigeriano Wole Soyinka ha detto: “la nazione è in guerra”. Una guerra combattuto dai nigeriani con a fianco un esercito di milioni di persone mobilitati sui social network, con servizi e reportage dei media mainstream di tutto il pianeta. Una mobilitazione che rompe il silenzio sugli orrori di una dei gruppi terroristici ed integralisti più agguerriti del continente africano e che sta erodendo come un cancro la fragile convivenza civile della nazione più popolosa, multietnica e multi religiosa dell’Africa subsahariana. La nazione è in guerra, il mondo è in guerra contro la barbarie fondamentalista e la violenza maschilista mascherata con motivazioni pseudo religiose.

L’immagine di più di 200 ragazze rapite, caricate su camion e portate via nell’impotenza dell’esercito e la disperazione delle famiglie è inaccettabile per la coscienza civile della nostra pur smarrita umanità e moralità. In nome di un fanatismo religioso cieco, violento e intollerante Boko Haram ha lanciato una sfida alla Nigeria e a tutti noi. Le ragazze sono state prese di mira prima di tutto perché donne, in nome di una visione secondo la quale la donna avrebbe nella società un solo posto immaginabile, sotto il dominio maschile, oggetto sessuale e persona di serie B che vive solo in quanto sottomessa ai desideri e alla legge maschile. Una visione che mescola antichi usi atavici patriarcali e dettati coranici interpretati strumentalmente per perpetuare anacronistici privilegi e legittimare un potere assoluto sulle donne, sugli usi e costumi anche dei non cristiani, sulle leggi dello stato, sull’economia e sulle alleanze internazionali del paese.

Le ragazze sono stata prese di mira, in secondo luogo, perché volevano studiare e prendere un diploma ambitissimo, il WAEC (West Africa Examination Commission) che avrebbe permesso loro di muoversi liberamente a cercare lavoro anche fuori dai confini della Nigeria. La scuola per queste ragazze è l’albero magico che apre la strada alla conoscenza del bene e del male, all’allargamento degli orizzonti culturali e della consapevolezza della propria dignità. La scuola è l’iniziazione all’emancipazione e all’autodeterminazione sul proprio corpo e sul proprio destino esistenziale. La scuola aiuta ad imboccare la strada irreversibile dell’autocoscienza.

Nella violenta azione di Boko Haram c’è il doppio attacco alle persone che anelano alla libertà; e alla donna che alza la testa e intende vivere seguendo vie tracciate semplicemente dai propri sogni e aspirazioni. Proprio per questo il rapimento e la captività di queste ragazze non ci può lasciare indifferenti. Cosi come non ci hanno lasciato indifferenti i destini delle donne afghane sotto il burka dell’intolleranza; delle ragazze pachistane in lotta per andare a scuola; le donne di Timbuctù violentate perché trovate senza velo. Quel “ho rapito le vostro figlie, le venderò al mercato in nome di Allah” pronunciato con cinica violenza da Abubakar Shekau, leader di Boko Harma è una sfida rivolta al mondo libero che dovrebbe accettare e riconoscere queste ragazze come “nostre figlie” da liberare al più presto e da restituire alla loro vita. Tale sfida è stata raccolta dalla comunità internazionale e alcune nazioni alleate del governo nigeriano (USA, Francia, Regno Unite) hanno promesso assistenza al governo di Abuja per restituire le ragazze alle loro famiglie, a tutti noi.

Ma l’attenzione alla Nigeria e alla minaccia terroristica in Africa non non deve essere intermittente e dettata solo da slanci emotivi contingenti e drammatici. I movimenti integralisti hanno lanciato una vera e propria offensiva che hanno come scenari, oltre la Somalia, il Sudan e l’area nordafricana del continente, la Nigeria, il Niger, Il Ciad, il Camerun, il Mali con l’obiettivo ormai dichiarato di marciare verso i paesi a sud dell’Equatore, storicamente non toccato dall’islamizzazione. Sotto questo punto di vista, la guerra libica e la disgregazione di quel paese hanno offerto un terreno fertile per l’azione delle bande terroristiche che si muovono indisturbate sulla striscia saheliana e dentro i confini meridionali dei paesi del Maghreb. Rapimenti, traffico di droga, tratta degli esseri umani e soprattutto commercio degli armi. Un rapporto dell’ONU del 2012  afferma che Boko Haram e tutta la galassia terroristica africana più o meno affiliata ad Al Qaeda hanno avuto accesso a grandi nascondigli di armi dentro e fuori i confini libici. Granate, mitragliatrici con visiera anti- aerei, fucili automatici, esplosivi e missili di superficie, sistema di difesa anti aereo in quantità sufficiente per destabilizzare i paesi africani dotati di eserciti poco o male addestrati, corrotti e in numero insufficiente. Il deserto del Sahara come terreno libero per un’offensiva doppia: verso i paesi del nordafrica e verso il golfo di Guinea. Da movimento terroristico interno alla Nigeria, prevalentemente operante negli stati musulmani del nord, Boko Haram estende la sua azione verso il resto dell’immenso territorio nigeriano e, al di là verso il Niger, il Ciad, il Camerun.

Lotta contro il terrore ma urgente necessità di un’inversione di rotta nella vita politica ed economica della Nigeria. Prima di tutto dando corpo e sostanza alla strutturale federale dello Stato, con equa distribuzione delle risorse e un funzionamento meglio regolato tra poteri locali ed autorità centrale. Negli ultimi anni, la concentrazione di potere nelle mani di pochi nella lontana capitale Abuja, la mancanza di trasparenza nella gestione degli ingenti proventi del petrolio e del gas (principali risorse del paese), la carenza di servizio sociali e di infrastrutture di collegamento hanno incoraggiato le spinte centrifughe e le rivendicazioni identitarie vecchie e nuove per le quali la Nigeria ha pagato nel passato un prezzo tragico con la guerra del Biafra.

Ma la vera guerra da combattere e da vincere è quella sociale. Il paese più ricco dell’Africa subsahariana (è di poche settimane la notizia del sorpasso nigeriano a danno della supremazia sudafricana) con un Pil per il 2013 stimato in 510 miliardi di dollari, 61% dei 170 milioni di nigeriani vive con meno di un dollaro al giorno. Una frattura che rappresenta una vera e propria bomba per la tenuta di questo gigante economico giudicato dagli esperti un nano politico per la fragilità del suo sistema politico e una polveriera sociale per le scandalose sperequazioni di reddito e di condizioni di vita. E non bastano alla popolazione i furti di petrolio che sottraggono al governo da 100 a 400 mila barili al giorno, circa il 18% della produzione nazionale. Non basterà il self-service del greggio, occorre una pianificata e duratura redistribuzione della ricchezza tra le varie regioni del paese e nei confronti di tutti gli strati della popolazione, soprattutto quella che sopravvive seguendo le logiche della “clochardizzazione” di massa nelle periferie urbane o le campagne inquinate dai residui di estrazione di gas come nel delta del Niger.

Nigeria, quindi, come specchio delle contraddizione del grande boom economico dell’Africa sospeso tra grandi performance economiche e pochissima inclusività sociale e stabilità politica. Specchio di legittime identità culturali e religiose che scivolano in ideologie di morte e di sopraffazione del diverso. Specchio di un mondo che dovrà ancora percorrere tanta strada per la “vita del diritto e il diritto alla vita”, aggiungiamo alla libertà, che non possono prosperare senza democrazia e giustizia sociale.


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