Non ci siamo proprio. Il rinnovo della concessione Rai, che scadrà fra due anni e mezzo appena, sta partendo col piede sbagliato, e bisogna dirlo sùbito in modo netto per riuscire a correggere il percorso. La falsa partenza è contenuta nel Contratto di Servizio Stato-Rai, approvato dal CdA di viale Mazzini il 18 settembre ed ora all’esame della Commissione parlamentare di Vigilanza. Nel convegno del 12 ottobre a Villa Medici, promosso da Articolo 21, Eurovisioni e Fondazione Di Vittorio, più di un intervento ha giustamente criticato l’esclusione dell’intrattenimento dall’offerta del servizio pubblico: come se la Rai non fosse tenuta a presidiare, con una qualità riconoscibile e contagiosa, anche i generi più popolari, e dovesse invece ritirarsi nei territori della “virtù” elitaria, per lasciare alle emittenti private i grandi numeri. Ma c’è un altro elemento non meno preoccupante, in quel testo: è l’articolo 23, che riguarda la consultazione pubblica attraverso la quale arrivare al rinnovo. Quattro righe che vale la pena di leggere per intero: “In previsione della data di scadenza della concessione del servizio pubblico generale radiotelevisivo, fissata al 6 maggio 2016, sull’esempio di altri broadcaster pubblici europei la Rai effettua delle indagini demoscopiche focalizzate su tematiche editoriali legate alla nuova concessione, informando il Ministero (dello Sviluppo Economico) su finalità, metodologie e risultati e coopera con il Ministero nello svolgimento della consultazione pubblica”. Il riferimento ad altre tv pubbliche europee sembrerebbe scritto avendo in mente la Bbc, che per il rinnovo del Royal Charter, cioè il “patto” decennale coi cittadini britannici, ha messo in moto un processo di consultazione vastissimo, che in più di due anni ha coinvolto cittadini singoli, associazioni, forze della cultura e dell’impresa. Un’apertura fatta con coraggio, sapendo che il valore del servizio pubblico non è più dato per scontato come avveniva un tempo, e che proprio per questo le critiche bisogna affrontarle, perché solo scommettendo sulla trasparenza del rapporto coi cittadini che pagano il canone può nascere una nuova legittimazione: quella che in effetti la Bbc ha ottenuto. Ma se ci si vuole ispirare a questo esempio, sono davvero poca cosa le “indagini demoscopiche” che il Contratto di Servizio dà il compito di svolgere alla Rai. Non può bastare qualche sondaggio ad evitare che il rinnovo della concessione sia un’operazione politico-burocratica, demandata alla trattativa fra gli stati maggiori dell’azienda e del governo. Se ci si arriverà così, è altissimo il rischio che il servizio pubblico ne esca a pezzi, in senso letterale: perché massima sarà la pressione, in una trattativa “riservata”, delle forze che allo smembramento del servizio pubblico mirano da tempo, avendo sponde politiche e istituzionali di grande peso e la capacità di fare incisive campagne polemiche (alle quali, del resto, la Rai offre più di qualche spunto…). La partita va giocata in campo aperto, come fu quella per l’acqua nei referendum del 2011. Quando ci sono buone ragioni da fornire ai cittadini, è dimostrato i servizi pubblici possono ancora contare su un largo consenso. Ma il coinvolgimento dell’opinione pubblica deve essere autentico, largo, capillare, non timoroso; sfruttando tv e radio, la rete e i social media per una campagna di ascolto e di risposta. C’è questa ambizione, nello “svolgimento della consultazione pubblica” che il Ministero dovrebbe svolgere e alla quale la Rai dovrebbe semplicemente collaborare? Il documento che dette il via al rinnovo del Royal Charter – preparato dalla Bbc stessa – si intitolava “costruire valore pubblico”. E di questa costruzione non ha forse un gran bisogno anche l’Italia sfiduciata e sfilacciata di oggi? Non si sta parlando di una tv, ma del Paese che c’è e soprattutto di quello che vorremmo. Gli “addetti ai lavori” in questo caso sono milioni e milioni di cittadini, che hanno il diritto di essere consultati.
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