Ormai è un bollettino di guerra. Ogni giorno veniamo a sapere di aziende editoriali in crisi e di chiusura di redazioni. E non conosciamo tutto quello che sta avvenendo nel panorama editoriale sempre più vasto, perché sfugge ai riflettori la crisi con cui hanno a che fare le piccole o medie testate, anello debole di una professione che si sta, lentamente e forse inevitabilmente, svuotando di ogni significato.
Già, perché ogni giornalista che se ne va ( e non sempre da prepensionato, ma, nelle piccole realtà se ne va e basta) non viene sostituto, ma, al suo posto, arriva una pletora di colleghi, definiti “free lance” ma non per loro scelta, che, in una guerra al ribasso dei compensi, si offrono agli editori, nella speranza di strappare almeno una collaborazione duratura. L’avvento dei new media ha, se possibile, peggiorato questa situazione: il modo di informare è cambiato davvero, oppure dietro alle richieste di cambiamento si cela soltanto la necessità di ridurre il costo dei giornalisti?
Possiamo parlare di vari giornalismi? Forse un tempo lo si poteva fare, oggi siamo di fronte ad un generale problema: quello di salvaguardare la professione giornalistica, una, unica seppure articolata in mille declinazioni.
O meglio quello da salvaguardare è il ruolo del giornalista in questa società, che sembra considerarlo inutile o addirittura dannoso.
Per questo non posso che ringraziare Beppe che lo ha capito e che ha iniziato questo dialogo e scambio di opinioni.
Le criticità economiche derivanti da cali di ricavi per vendite e soprattutto pubblicità vanno affrontate ricercando più soluzioni e ripartendo gli eventuali oneri sulla base di pesi che vanno tenuti in equilibrio. Il costo maggiore non può ancora essere ancora pagato dai giornalisti.
Per questo il ruolo del sindacato, in prima battuta, ma non dimentichiamo l’ordine, deve essere, come si diceva una volta, di servizio. Deve cercare di fornire risposte, se possibili, concrete a fronte di una protesta che segnala disagio, criticità ed insofferenza. Deve creare un nuovo rapporto anche con le aziende, perché quei fattori che vorrebbero un giornale ormai definitivamente multimediale possano essere valutati attentamente, non solo sul piano contabile e gestionale, ma anche su quello prospettico dello sviluppo editoriale.
Certamente i giornalisti non devono pagare oltre misura costi di una logica di mercato di cui devono tenere conto, ma in cui rimangono protagonisti essenziali.
Per questo il sindacato deve superare ormai le logiche di componenti perché oggi l’obiettivo primario è salvare questa professione. E per farlo ci vogliono colleghi “di buona volontà”, pronti a spendersi per l’idea che non si può fare a meno della lettura giornalistica di quanto accade nel mondo. Meglio ancora se nel sindacato si riuscirà mettere in atto un ricambio continuo nei vari livelli della scala gerarchica. Cdr e fiduciari di redazione compresi. Tutti siamo d’accordo sul fatto che sia necessario un ricambio, ma poi, all’atto pratico, coloro che lo invocano sono disposti a farsi da parte? A fare un passo indietro?
Il settore dell’editoria è un settore sempre più in asfissia, in debito di ossigeno, ovvero di risorse finanziarie per risalire il pozzo della crisi. La tentazione è quella di pensare solo a se stessi: i grandi gruppi hanno chiuso il portone del loro fortino, osservando dall’alto la guerra dei “poveri” sperando di non rimanerne coinvolti, ma fino a quando? I segnali sono di altro tipo.
E allora come intervenire? L’obiettivo dovrà essere quello di riaprire il mercato del lavoro giornalistico attraverso un meccanismo combinato che leghi il ricorso ai prepensionamenti (elevando magari l’età anagrafica e contributiva) a nuova occupazione ed anche ai semplici ammortizzatori sociali.
Occorrono misure sempre più urgenti, perché sta boccheggiando tutto il sistema e se vogliamo salvaguardarlo e farlo ripartire bisogna parlare di sviluppo, innovazione e ripartizione del credito agevolato.
Oggi gli ammortizzatori sociali – come i contratti di solidarietà e la cassa integrazione – pesano sulle casse dell’Inpgi, e il numero sempre più elevato sta mettendo a dura prova i conti dell’istituto. Quindi c’è esigenza dell’intervento dello Stato per alleviare questi carichi e introdurre concessioni pubbliche alla contribuzione. Dobbiamo fare in modo che si eviti il tracollo e l’impoverimento dello strumento dell’informazione e proiettarlo invece in un quadro più ampio in cui lo Stato si preoccupi, senza per questo invadere il campo, di considerarlo un settore industriale che produce un bene collettivo, a cominciare dal pluralismo.
Infine vorrei spendere due parole sul nostro ordine.
Ci vuole un ordine che sappia dare risposte concrete in un momento di trasformazione multimediale profonda e di crisi gravissima del sistema dell’informazione. Un ordine che, a livello regionale, abbandoni le politiche di parte (anche in questo caso), puntando sulla formazione e sulla consulenza ai giornalisti in difficoltà.
In questo senso rivedere l’accesso alla professione diventa una priorità, perché avvenga esclusivamente per via universitaria, con laurea triennale e successivo master in giornalismo o biennio magistrale propedeutico all’esame di stato.
Un secondo passo dovrebbe essere quello di promuovere e vigilare sulla dignità anche economica dei giornalisti freelance, per cosi dire, sinonimo di autonomia professionale e quindi di libertà di stampa, in primo luogo attraverso la piena e immediata applicazione della legge sull’equo compenso.
* giornalista Corriere di Novara
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