Un grande giornalista americano, Walter Lippmann, pubblicò proprio nell’anno in cui Mussolini riuscì a conquistare il potere in Italia, nel 1922,un libro L’opinione pubblica nel quale definì sinteticamente quella che, a mio avviso, è il fondamento di una “teoria democratica dell’opinione pubblica”. “Il nocciolo della mia tesi-ha scritto Lippmann quasi cento anni fa-è che la democrazia, nella sua forma originaria, non abbia seriamente affrontato il problema derivante dalla non automatica corrispondenza delle immagini, che gli individui hanno nella loro mente alla realtà del mondo esterno…..Il governo rappresentativo, tanto nella sfera che solitamente viene detta politica che in quella dell’economia, non può funzionare bene, se non c’è un’organizzazione indipendente che renda i fatti non visti comprensibili a quelli che devono prendere le decisioni.”
Lippmann dedica, nel suo saggio, particolare attenzione a tre aspetti di grande interesse per una teoria della comunicazione. Il primo riguarda gli ostacoli che il governo e altre istituzioni dello Stato(democratico o pseudo-tale)pongono alla conoscenza di alcuni fatti di rilevante interesse pubblico. Proprio la prima guerra mondiale ha mostrato la difficoltà degli Stati ad esercitare correttamente, al di fuori della propaganda, queste funzioni. Il secondo aspetto è costituito dalle barriere economiche, sociali e culturali che impediscono a tanti di accedere alle fonti di informazione. Problema particolarmente grave in un paese come il nostro che, rispetto ai trentuno paesi dell’OCSE, è agli ultimi posti della classifica per quanto riguarda il livello dell’istruzione media da parte di ampi strati della popolazione. “Ci sono interi settori -ha ricordato Lippmann – vastissimi gruppi, ghetti, isole e classi che hanno solo un vago settore di ciò che succede. La loro vita scorre come su binari, sono rinchiusi nei propri affari, esclusi dagli avvenimenti più grandi, incontrano poche persone appartenenti a strati diversi dal loro, leggono poco.”
Il terzo aspetto cui Lippmann dedica attenzione riguarda le novità introdotte nel campo della comunicazione dalla psicologia del profondo che consente di analizzare in maniera più rigorosa le motivazioni psicologiche che spingono individui e gruppi sociali a seguire quel che succede nel microcosmo in cui si svolge la vita della maggior parte dei cittadini di uno Stato e del mondo intero. Se questa è, in maniera sintetica, l’abbozzo di una teoria democratica delle comunicazioni, a che punto siamo nell’anno 2013 in Italia? A un simile interrogativo si può rispondere enumerando prima di tutti gli ostacoli oggettivi che ostacolano l’avvicinarsi nel nostro paese a quella teoria democratica.
Primo di ogni altro, la presenza di notevoli conflitti di interesse che riguardano quello che è, tuttora, il massimo leader del populismo italiano, Silvio Berlusconi(ma non soltanto lui).La legge Frattini sui conflitti di interesse è intenzionalmente insufficiente a risolvere il problema, come ha dimostrato con chiarezza il libro del professor Stefano Passigli. Quindi la forza prevalente delle proprietà dei canali televisivi come dei quotidiani e dei periodici sulle direzioni giornalistiche e la vicinanza dei proprietari alle forze politiche contrapposte. In Italia la politica continua a contare molto e il sistema bipolare e maggioritario affermatosi negli anni novanta del Novecento ha accentuato, con il trionfo dei populismi peraltro non ancora sconfitti in maniera definitiva, la contrapposizioni tra l’uno e l’altro schieramento.
Gli altri ostacoli attengono alla formazione dei giornalisti, alla loro selezione interna o carriera che dir si voglia, ai rapporti tra i direttori e i proprietari. Qui faccio soltanto un accenno ma, pur essendo convinto dell’opportunità delle scuole di giornalismo(sono stato in Italia uno dei fondatori delle scuole), la vicinanza tra politica e giornalismo è così forte che è stato, a mio avviso, finora impossibile intervenire sulla formazione e, soprattutto, sulla selezione dei giornalisti.
Nè si può dire che i fondamenti della teoria democratica della comunicazione di Lippmann, per quanto non messi apertamente in discussione, siano stati diffusi e trasmessi efficacemente alle nuove generazioni. Se a questo si aggiunge che la gravissima crisi economica della società italiana e delle aziende giornalistiche ha prodotto negli ultimi anni un aumento geometrico della disoccupazione e del precariato e, di conseguenza, una sempre maggiore arroganza delle proprietà giornalistiche come della classe politica sulle redazioni, un arbitrio più grande nei confronti di chi lavora nei canali televisivi o nei giornali (l’esempio del “postino” dei videomessaggi politici è un esempio significativo), si può avere un quadro realistico dell’estrema difficoltà che il mestiere giornalistico sta vivendo oggi in Italia.
E’ difficile, in questa situazione, avanzare proposte per il futuro. Ma si può dire che la tesi di Lippmann che ho esposto all’inizio sembra ancora la più avanzata, se il populismo verrà finalmente sconfitto nei prossimi anni. Che è necessario rinnovare le scuole di giornalismo, rafforzare la formazione culturale e l’educazione civile delle nuove generazioni giornalistiche. Infine che la costruzione di un mestiere giornalistico più adeguato ai compiti importanti che ha in una società contemporanea dipenderà anche dalle misure che le classi dirigenti dovrebbero prendere per rafforzare le scuole e le università molto indebolite da una cattiva politica perseguita nell’ultimo ventennio. La speranza di chi scrive è che tutto questo possa realizzarsi in un futuro non troppo lontano.
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