Stella è una studentessa universitaria. Ha scelto Farmacia. Prepara la tesi frequentando un gruppo di ricerca. Lavora nei laboratori di chimica. L’aria che si respira è tutt’altro che salubre. Comincia a non sentirsi bene, gli occhi arrossati, la spossatezza. Vorrebbe smettere ma non intende rinunciare al suo sogno…
Stella è Alba Rohrwacher (nella foto in una scena del film) che insieme ad Anna Balestrieri e Michele Riondino sono i protagonisti di “Con il fiato sospeso” il film, bello ed intenso di Costanza Quatriglio Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.
La storia si ispira al memoriale-denuncia di Emanuele, dottorando all’Università di Catania, morto di tumore al polmone nel 2003. I vertici della Facoltà sono oggi imputati in un processo per inquinamento ambientale e discarica non autorizzata.
Costanza, qual è stata la scintilla che ti ha spinto a portare sul grande schermo questa storia?
Lessi un articolo sull’edizione locale di “Repubblica”. Parlava del sequestro dei laboratori dell’Università di Catania e faceva accenno al memoriale di Emanuele. Mi sono subito chiesta come fosse stato possibile consentire che gli studenti lavorassero in strutture per nulla idonee. E perché i professori, che per vocazione dovrebbero essere ossessionati dalla ricerca delle verità non si fossero spesi per verificare le condizioni di insalubrità degli ambienti. Parliamo di una facoltà scientifica, mi ripetevo. Come può essere che in un contesto del genere ci sia una sicurezza pari a zero?
Così hai scelto di approfondire la vicenda. Hai capito da subito qual era la chiave per te più giusta per realizzare il film?
Il tema mi ha appassionato molto e mi ci sono impegnata per anni. Il mio lavoro non è stato tanto quello di capire cosa succedeva a Catania – pur avendo conosciuto molte persone, alcune delle quali attualmente malate di leucemia per le stesse ragioni – ma frequentare ricercatori di altre facoltà. Innanzitutto per cercare di decrittare alcuni termini del memoriale di Emanuele. “Facevamo le cromatografie fuori dalla cappa”, un gergo tecnico che ovviamente non comprendevo.
Forse il tuo intento era anche quello di capire se ci fossero situazioni analoghe in altre facoltà del Paese…
Non era il mio proposito iniziale eppure strada facendo ho capito che Catania è solo la punta dell’iceberg. Se andassimo davvero ad affrontare in profondità la questione scopriremmo molte cose dell’università. Che gli atenei sono vecchi. Magari rinnovati e messi a norma – non vorrei essere accusata di procurato allarme – ma concepiti per una cultura della sicurezza che non è quella di oggi. Questa storia ci porta inevitabilmente ad una riflessione emblematica sul nostro Paese: l’Italia non ha mai affrontato adeguatamente il tema della progettualità e di conseguenza dell’ammodernamento e della messa in sicurezza delle strutture…
Emanuele era nato nel 1973. Come te
E infatti io leggo il suo memoriale e penso a me e ai miei compagni. A noi che abbiamo vissuto nella totale rimozione delle problematiche del conflitto sociale. Cresciuti pensando che la generazione di mezzo, tra i più anziani e noi, avrebbe risolto tante criticità aperte che, al contrario, non ha affatto rimosso; semmai le ha consolidate. Nella storia di Stella e dei giovani universitari costretti a studiare e fare ricerca in laboratori di chimica insalubri si consuma il più alto dei tradimenti. E’ la metafora di come l’Italia sia, oramai, il Paese che divora i suoi figli!
Nel film ricorrono più volte le parole dei protagonisti, disillusi dall’ambiente universitario. Che curano, praticamente per intero, importanti pubblicazioni scientifiche ma poi di loro non c’è traccia e l’unica firma è quella dei professori…
L’università è assolutamente verticistica. E’ un concetto venuto spesso fuori dalle mie conversazioni-interviste con i ragazzi che lavorano con l’università e anche con i professori di 50-60 anni. Il verticismo fa sì che si debba procedere con le pubblicazioni per avanzare nella carriera. E così i laboratori devono restare aperti per non interrompere la ricerca e dare la possibilità ai professori di fare avanzamenti di carriera con le loro pubblicazioni. Il tesista che si innamora perdutamente del suo lavoro e capisce che quella è la sua vocazione si ritrova davanti un muro invalicabile. E’ vero, bisogna fare tanta gavetta, ma qui parliamo di persone che non riusciranno mai ad avere un nome pubblicato, a sentirsi gratificati nonostante il lavoro estenuante e di qualità.
Stella (Alba Rohrwacher) però è piena di speranza
E’ motivata, ama ciò che sta facendo, adora la chimica ma pian piano la speranza sente di perderla, si fa strada la disillusione. E’ confusa. Quando le chiedo cosa vuole fare lei risponde “non lo so”. Dice “non ho gli strumenti per sapere cosa voglio fare”. Con chi se la prende? Con un professore? Con la società?
Il film, tra finzione e documentario si articola attraverso una tua intervista ad un personaggio inventato. Perché hai scelto questo dispositivo narrativo e non quello più classico delle interviste ai genitori, agli amici, ai colleghi di università, agli avvocati che si sono occupati della vicenda?
Non era il tipo di film che volevo fare io… Stella è un personaggio della finzione ma potrebbe essere vera… Con la finzione e la drammaturgia puoi filtrare il dolore e renderlo universale.
La vicenda di Catania è stata ripresa da due cronisti siciliani di “Repubblica”. Tu nei hai fatto un film. Pensi che servirà ad aprire un dibattito sul tema della mancanza di sicurezza nei laboratori delle università? E in questo quadro quanto può fare l’informazione e il cinema per squarciare questo muro di gomma?
Può fare tanto. Nella stessa Catania ci si è ben guardati all’inizio dal monitorare questa storia. A parte “Repubblica” nessun giornale locale se ne era occupato. Poi esce il mio film e un quotidiano catanese ci fa un bel pezzo e lo spara con un richiamo in prima pagina. Se non ci fossero stati questi due segugi non avremmo saputo nulla del diario di Emanuele. Loro hanno dato la notizia, io poi ho approfondito la vicenda. E ho avuto moltissime difficoltà…
Tra l’altro sei stata costretta ad autoprodurlo…
Ho parlato con molti produttori importanti che all’inizio hanno creduto nella possibilità di farlo ma poi non si partiva mai. Eravamo come dei corridori allo start che però restano ai blocchi di partenza.
Paura di occuparsi di un tema così scottante e delicato?
La realtà è che negli ultimi dieci anni il cinema italiano ha dovuto convivere con un gigantesco sistema di autocensura!
E così hai deciso di andare avanti da sola.
Un’autentica follia, che non sarebbe stata possibile senza il contributo di tutti coloro che ci hanno creduto. Da Alba Rohrwacher a Michele Riondino, dal fonico al direttore della fotografia. Tutti hanno lavorato senza sosta. Poi ho incontrato la casa di produzione Jolefilm a cui il film è piaciuto moltissimo. Se li avessi conosciuti prima…
Cinecittà Luce ha voluto subito il film per la distribuzione e il direttore della Mostra del Cinema di Venezia ne ha parlato in conferenza stampa al Lido…
Sono stata molto felice. Ci ho lavorato per quattro anni, dovevo andare fino in fondo. E mentre facevo le riprese mi sono accorta che quello che avevo immaginato si era compiuto. Era un film vero, di 35 minuti ma perfetto come film in sé. Ho appagato il mio desiderio di raccontare questa storia, con questa formula, alla fine di un lungo lavoro.
Mentre concludiamo l’intervista, su Rainews scorrono le immagini della Siria, e le notizie delle armi chimiche… “La chimica è tutto”, conclude Costanza Quatriglio. “Ho imparato cose pazzesche. Il mio è stato un viaggio nella chimica nociva ma non solo. Ho appreso la filosofia degli elementi. Le molecole che si separano e decidono dove andare. La chimica è una metafora incredibile della vita. Se leggi il copione e lo decodifichi, tutta la linea narrativa è scritta sulla base del comportamento delle molecole…”