VERSO IL CONVEGNO DEL 2 LUGLIO AL CNEL (Art.21/Fondazione Di Vittorio) – Chi lo dice che strategie semplici, addirittura elementari, applicate a sistemi complessi e delicati non funzionano? Una pinzetta da bucato può fermare un super computer, infilandosi dove non deve sotto il naso di tutti e con poche mosse lo manda in “tilt”. Con la Rai, meglio con il Servizio Pubblico, la regola del vecchio arnese che si fa protagonista funziona da sempre. Il guaio è che tante mani hanno appuntato la pinzetta a seconda delle stagioni un po’ più a destra o più a sinistra, al punto da far nascere prima l’esigenza di tre canali e oggi quella di un governo con oltre 10 vie digitali per una bella scorpacciata di poltrone, sedie e strapuntini. Detto questo la domanda è: “adesso come farai a difendere la Tv pubblica?”. Strano ma è più facile passando per la critica che per l’elogio. Le ragioni per tenersi stretto un Servizio Pubblico stanno nella sua natura che è, per genetica, raccogliere voci, mettercele davanti, approfondire temi a volte anche noiosi, dare spazio alle storie che nessuno vuole raccontare e fare – qualche volta – anche arrabbiare e cambiare canale. Tutto questo, e molto altro ancora: è dare corpo e sostanza al Contratto di Servizio tra Stato e Rai per realizzare il Servizio Pubblico radiotelevisivo. “Quel” servizio pubblico è cifra distintiva di un paese che accetta di guardare se stesso da vicino, che non accetta di vedere solo il bello (a volte è più facile vedere due subrettine mezze nude che un servizio sugli Invisibili) e scambia un film cazzotti e spari, una soap o una fiction di gente che si insulta e poi si bacia, con una Divina Commedia o una Costituzione spiegata nella sua misteriosa bellezza. Insomma gente che canticchia “via, via… vieni via di qui” e nell’andare dove li portano gli occhi hanno curiosità da vendere. Ora se la pinzetta di prima viene usata per chiudere il canale che porta la luce dagli occhi al cuore succede che una Rai venduta a tranci, come un pescespada, va benissimo. In fondo in Rai, da che ci lavoro, ho visto stagioni così belle e intense da sentirmi un privilegiato a combatterle da vicino. Dopo i “professori”, pur animati da buone intenzioni ogni tanto davano l’idea di non sapere dove si trovavano, tante ére fino a quella Berlusconi. Lo dico senza antipatia verso il cavaliere. Mi fa sorridere come prende la vita, spero lo possa fare fino a cent’anni ma da qui a pagargli io il biglietto ne passa… Tenere in piedi la Rai è stato il suo capolavoro. Tanti invocavano una legge sul conflitto d’interessi e lui indicava Saxa Rubra o Viale Mazzini come a dire “dov’è il conflitto? Sono o non sono ancora lì Rai e Servizio Pubblico? E allora?”. Bravo. Decine di dirigenti trasferiti da Mediaset con una “mission possibile”: tieni viva la vecchia ma non farle vedere i nipoti…
Poi sono arrivati i “nostri” quelli “da casa”, già lavoravano nel Servizio Pubblico e si sono detti “e io chi sono? Il più fesso?” E allora via, via… vieni via di là. Poi tanti quadri di un carosello italiano: madame della buona società, dirigenti muscolari e damerini vestiti come uno dei “Soprano”, fa effetto parlarne proprio all’indomani della scomparsa dell’attore che ne è emblema. Così si arriva piano, piano, con la crisi che morde le caviglie e azzoppa inserzionisti pubblicitari e potenziali abbonati paganti, alla proposta che da vent’anni sognano in tanti: “vediamo la Rai”. Tagliamola a strisce, facciamone tante, meglio se brutte, così sarà solo un momento di passaggio verso il “Soogno”: più nessun cittadino, più nessun utente, tanti clienti da servire, tanta merce da vendere.
Salvare la Rai da questo destino è salvare un gioco d’ingegno, riparabile, dalla spazzatura; è salvare la nostra capacità di dar forza, come cittadini soprattutto, alle storie che solo un Servizio Pubblico può raccontare. Ripariamo la Rai, chiediamole di essere migliore, chiediamole conto di chi la dirige, la scrive, la legge e la presenta. Facciamolo per chi vive in questo sgraziato Paese.