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Il PD immolato sull’amaro colle del Quirinale. Quando la “sinistra” si suicida

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Poteva finire in un altro modo, certo!

Ma il PD e la politica italiana sono ancora figli del consociativismo della Prima Repubblica, orfani dei “grandi padri” dei partiti cosiddetti “ideologici” (PCI, DC, PSI, MSI), stregati dal lungo intermezzo berlusconiano che nel “sonno della ragione ha generato mostri”: da destra a sinistra, purtroppo.

Ecco, dunque, che quel che resta del PD corre col fiato strozzato in gola verso l’amaro colle del Quirinale, pietendo ad un ultraottuagenario e stanco Napolitano di continuare almeno per un po’ in un secondo settennato. Insomma, un Presidente a “tempo determinato”. Un’altra mostruosità istituzionale, una resa senza condizione per manifesta incapacità di governare le situazioni complesse. Un’anomalia mondiale!

E tutto questo pur di non voler voltare pagina, pur di non corrispondere la propria azione di “Grandi elettori” alle pressanti richieste che vengono dagli elettori “comuni”, che in queste settimane si sono espressi sulla RETE e non solo per il professor Stefano Rodotà.

Il gruppo dirigente del PD è allo sbando, spezzettato in tanti tronconi, l’un contro l’altro armato, impegnati in sanguinose vendette “via schede elettorali”, passando da infide ovazioni assembleari, dopo essersi scelti autoreferenzialmente da Primarie ben organizzate dalle burocrazie interne. Nel segreto dell’urna, dell’imponenti “insalatiere” di Montecitorio si sono consumati vecchi me nuovi tradimenti.

Grandi Elettori che pensano (tranne alcune eccezioni incoraggianti) al proprio tornaconto personale, che si discostano dalla storia dei partiti di origine del PD (appunto il PCI, il PSI ela DC) e da una disciplina di partito, che in tutto il mondo democratico viene accettata una volta votata la linea politica o scelta una personalità per una carica di primo piano istituzionale.La Democrazia di cui molti esponenti da destra a sinistra discettano sui grandi schermi è fatta di trasparenza, franchezza, di confronto anche aspro fra opinioni diverse e poi di scelte condivise da maggioranze e minoranze interne. Così si fa negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania e in Francia, dove i partiti conservatori o progressisti al loro interno, anche dopo dure battaglie per scegliere i gruppi dirigenti o l’aspirante leader alla premiership nazionale, si uniscono all’unisono per cercare di vincere gli scontri politici. Chi non ci sta, prende la porta e se ne va. Spesso, in realtà, torna a fare il mestiere di una volta.

Ma in Italia il mestiere più ambito da chi non ha una propria professionalità purtroppo spessissimo è proprio quello della “carriera politica”: dai piccolissimi enti locali, ai comuni, alle regioni, al Parlamento. Gli esosi costi della politica e della macchina organizzativa dello Stato lo certificano ormai da tempo, con l’aumento della pressione fiscale, la riduzione del welfare state, la crisi economica e la disoccupazione galoppante!

In Italia, purtroppo, il processo decisionale democratico è diverso.

Chi non ci sta con le scelte della maggioranza interna, continua a tramare più o meno nell’ombra, o si dà in pasto al palcoscenico mediatico. La teatralizzazione della politica, figlia del berlusconismo ventennale, ha generato mostri mediatici, che stanno uccidendo non solo i loro partiti di appartenenza ma anche il sistema democratico italiano e i suoi meccanismi decisionali. L’immobilismo che ne consegue è foriero di ulteriori drammi culturali ed economici, così come ci vengono indicati da istituzioni “terze”, comela Bancad’Italia, il Fondo Monetario Internazionale,la BCE, l’OCSE, i maggiori istituti di ricerca mondiali. La deriva verso il baratro per l’Italia è già oltre il colle del Quirinale!

Fatto fuori Franco Marini, seppure dopo un dibattito aspro e trasparente, ma all’indomani di una scelta impositiva che nel metodo riportava ai tempi della Bicamerale dalemiana e agli olezzi di inciuci prossimi venturi, ecco che viene immolato sull’altare della patria l’unico politico atipico che ha saputo sconfiggere Berlusconi, che ha dato un’impronta progressista alla politica governativa, quel Romano Prodi, fautore dell’esperimento Ulivo, fin qui rimasto il solo caso di un’invenzione culturale e politica davvero innovativa non solo per il nostro paese.

Il terremoto nel PD non si arresterà, come avvenne all’Aquila (mai metafora politica fu più azzeccata da un quotidiano, come ha fatto pochi giorni fa l’autorevole inglese Financial Times), perché oltre alle scosse di assestamento, resteranno anche le macerie strutturali e umane, che produrranno un forte sbandamento negli iscritti, nei simpatizzanti e tra gli elettori. Se si dovesse andare a nuove elezioni in tempi brevi e con l’attuale sistema antidemocratico del “Porcellum”, il Pd rischierebbe di finire come fu perla DC, poi divenuta Partito Popolare, o come il PSI nel 92/94. Berlusconi avrebbe campo libero e il Movimento 5 Stelle di sicuro aumenterebbe i suoi consensi. E le imminenti elezioni regionali in Friuli, conla Serracchiani in prima fila, e quelle per il comune di Roma, a fine maggio, con l’altro outsider Marino potrebbero rivelarsi un bagno di sangue, consegnando ai “grillini” una regione e la Capitale.

Cosa fare, dunque?

E’ la domanda che ad ogni fase “prerivoluzionaria” si fanno i nuovi gruppi dirigenti o le élites intellettuali che dovrebbero prendere il posto delle vecchie gerarchie.

Ebbene, al momento la strada più lineare è senz’altro quella di votare Rodotà cercando una trasparente intesa con i “grillini”, mantenendo l’alleanza con SEL di Nichi Vendola e andando incontro alle richieste dell’elettorato. Si vedrà chi e come all’interno del PD si opporrà a questa scelta e si chiederà loro di uscire da “quella porta”, di accomodarsi verso un’altra compagine parlamentare.

Quindi, dar vita da subito alla stagione congressuale del PD, che stavolta allarghi la sua platea anche a coloro che hanno votato nelle primarie, che si sono registrati, magari riscoprendo quella forma partito moderno “aperto”, “a geometria variabile”, “separato dallo stato”, per uno “sperimentalismo democratico”, che l’economista e ministro Fabrizio Barca ha delineato nel suo saggio (“Un partito nuovo per un buon governo”).

Altre vie non si intravvedono, se si vuole uscire dal “porto delle nebbie” e non ricadere sotto l’egemonia culturale del berlusconismo ancora imperante.


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