In occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte, Iran Human Rights Italia Onlus esorta le autorità italiane e internazionali e la comunità degli attivisti per i diritti umani a porre la necessaria attenzione alla drammatica situazione della Repubblica Islamica dell’Iran, dove l’uso della pena capitale non accenna a diminuire. Come documentato dal Rapporto 2011 sulla pena di morte in Iran di IHR, l’80 per cento delle 676 vittime di esecuzione è stato condannato per reati connessi al traffico di droga, ma nella grande maggioranza dei casi la scarsa trasparenza dei processi non ha consentito di verificare la fondatezza delle accuse e solo nel 9 per cento dei casi i prigionieri messi a morte sono stati identificabili con nome e cognome. Nel giugno scorso, pochi giorni dopo l’impiccagione di 5 prigionieri politici della minoranza araba Ahwazi, i tre relatori speciali dell’ONU Ahmed Shaheed, Christof Heyns e Juan E. Méndez, in un documento sulla pena di morte in Iran, avevano ricordato che “secondo il diritto internazionale la pena di morte è una forma estrema di punizione, da applicare solo in presenza di reati particolarmente gravi”. Il traffico di droga non rientra in questa categoria. I tre avevano aggiunto anche che “ogni sentenza capitale applicata in contrasto con gli obblighi previsti dal diritto internazionale va considerata un’esecuzione arbitraria”.
IHR Italia fa proprie, in questa giornata, le parole degli esperti ONU, sottolineando che nella maggioranza dei casi le impiccagioni che avvengono quotidianamente in Iran sono esecuzioni arbitrarie, frutto di processi sommari, di accuse non verificabili, di pene comminate per reati la cui entità non dovrebbe comportare la pena di morte, anche in presenza di una colpa riconosciuta e verificabile.
Al tempo stesso anche la prassi delle esecuzioni in pubblico è in preoccupante aumento, in Iran, segnale questo di un uso politico della pena di morte sempre più spregiudicato da parte del regime iraniano, che adopera le impiccagioni in piazza come strumento di propaganda del terrore allo scopo di aumentare il suo controllo sociale.
È inoltre noto che la pena di morte viene applicata con particolare crudeltà e sistematicità contro prigionieri (politici e non) membri delle minoranze etniche che vivono in territorio iraniano: curdi, arabi ahwazi, afgani.
IHR Italia coglie inoltre l’occasione di questa giornata per ricordare alcuni casi di prigionieri che potrebbero trovarsi in imminente rischio di esecuzione, e per i quali chiede alla comunità internazionale di esercitare ogni forma possibile di pressione diplomatica sulle autorità iraniane.
Gholamreza Khosravi, 50 anni, fu arrestato nel 2008 a Rafsanjan, nella provincia di Kerman (Sud-Est dell’Iran). L’accusa suo carico era inizialmente relativa al suo presunto appoggio a Simay Azadi, una stazione televisiva legata all’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo (MEK o PMOI). È stato condannato a morte dopo un secondo processo presso il Tribunale rivoluzionario di Teheran, anche se per legge nessuno potrebbe essere processato due volte per le stesse accuse. Inoltre, è stato accusato di Moharebeh (guerra contro Dio) per i suoi presunti legami con il PMOI. La sua condanna a morte è stata confermata dalla Corte Suprema il 21 aprile scorso.
Abdolreza Ghanbari, 44 anni, insegnante, fu arrestato all’indomani delle proteste avvenute durante l’Ashura, nel dicembre 2009. È stato condannato a morte in base all’accusa di Moharebeh per i suoi presunti legami con il PMOI. La sua richiesta di grazia è stata respinta dalla Corte Suprema. Potrebbe essere messo a morte in qualsiasi momento.
Ahmad Daneshpour Moghaddam, 42 anni, e Mohsen Daneshpour Moghaddam, 69 anni, figlio e padre, furono a loro volta arrestati in relazione alle proteste in occasione dell’Ashura 2009. Sono stati accusati di Moharebeh per i loro presunti legami con il PMOI e condannati a morte. Anche la loro sentenza potrebbe essere eseguita da un momento all’altro.
Continuano anche le preoccupazioni sull’imminente esecuzione di Saeed Malekpour, 37 anni, un programmatore di siti web le cui principali accuse comprendono Moharebeh e offese e profanazione nei confronti dell’Islam. La sua condanna a morte è stata confermata dalla Corte Suprema nel gennaio 2012. Anche nel suo caso, la sentenza potrebbe essere eseguita in qualsiasi momento.
Grandi preoccupazioni si nutrono inoltre per la sorte di 12 prigionieri (5 donne e 7 uomini) agli arresti da mesi in Iran, e tuttora in attesa di processo, ma già presentati al pubblico televisivo, in un documentario trasmesso lo scorso 6 agosto, come “rei confessi” degli omicidi di 5 scienziati nucleari iraniani nel 2010. Nel documentario in questione tutti hanno affermato di essere stati addestrati in Israele prima di eseguire gli assassinii in Iran. Il filmato non ha mostrato alcuna prova a sostegno di tali affermazioni. La prassi delle confessioni televisive, presumibilmente ottenute con il ricorso a pressioni fisiche e psicologiche, pregiudica il diritto degli imputati a un processo equo e alla presunzione d’innocenza, il che è particolarmente grave in casi come questi, in cui vengono contestati reati che potrebbero condurre gli imputati alla pena capitale. I nomi di alcuni di questi 12 prigionieri sono: Behzad Abdoli, Firouzeh Yeganeh, Maryam Zargar, Ramtin Mahdavi Moshaie, Arash Kheradkish e Mazyar Ebrahimi.